Il sonno della politica crea dei mostri: considerazioni su due attentati

 

 

Premessa: Nelle prime ore della mattina del 7 Ottobre 2023, Hamas lancia un’offensiva in territorio israeliano dal nome “Operazione alluvione Al-Aqsa”. Questa operazione, complessa e su vasta scala, è consistita in una serie di attacchi di miliziani provenienti dalla striscia di Gaza, ai quali si sono uniti anche nuclei di altri gruppi terroristici palestinesi.

 

Ad operazione conclusa si sono lasciati dietro i corpi di più di un migliaio di civili e militari israeliani, spesso uccisi in modo brutale, se non addirittura barbarico. Ad aggravare ulteriormente la situazione sono stati anche rapiti circa 250 residenti, di cui una trentina di bambini, uno dei quali aveva meno di un anno.

 

Visto che nelle azioni umane date e simboli hanno grande importanza, che spesso molti tendono a trascurare, è bene ricordare che nella giornata del 7 Ottobre 1973 le truppe egiziane attraversavano il canale di Suez travolgendo le impreparate difese israeliane. Era l’inizio dell’offensiva del Kippur che in un primo momento mise in forte difficolta Israele e venne accolta con tripudio dalle masse arabe. Parliamo dunque del cinquantesimo anniversario dello scoppio di questa guerra.

 

Per molti, a motivare l'attacco di Hamas è stato l'intento di rispondere alle azioni provocatorie di fronte alla Moschea al-Aqsa e le violenze perpetrate da parte dei coloni israeliani in Cisgiordania. Vi sono ragioni però più profonde a partire dall’intenzione di trarre profitto dalle profonde divisioni che stanno lacerando e dividendo profondamente la società Israeliana. Vi è poi la volontà di sabotare gli accordi di Abramo tra Israele ed alcuni regimi arabi, tra i quali quello con l’Arabia Saudita in corso di definizione. Rimettere al centro della scena la questione palestinese, nascosta sotto il tappeto da questi accordi. Indebolire ulteriormente l’Autorità Nazionale Palestinese. Intenzione di suscitare da parte di Israele una risposta tale da porlo in cattiva luce agli occhi del mondo e provocare l’indignazione di tutte le piazze arabe.

 

I fatti mostrano che Hamas è riuscita a raggiungere i suoi obiettivi: se domani non vi sarà uno Stato palestinese dubito passeranno gli accordi di Abramo, oggi ad un punto morto. Il motivo: la causa palestinese, da troppo tempo ignorata e per la quale tutti sembravano aver perduto interesse, è sempre rimasta nel cuore delle masse arabe. Quanto al credito dell’ANP e del suo leader Abu Abbas, questo non è mai stato così basso: stanno infatti lievitando i consensi ad Hamas nei territori di Cisgiordania. Israele, in fine, è stato appena citato di fronte alla Corte Penale Internazionale dell’Aia con l’accusa di genocidio.

 

In conclusione, Israele è l’unico paese che sia stato in guerra con tutti i suoi vicini e questo è il primo conflitto all'interno del suo territorio dall’attacco del 1948. Si tratta anche della prima volta che nel corso di una offensiva lo Stato Ebraico abbia subito perdite più elevate di quelle arabe, così come è anche la prima volta che ha formalmente dichiarato guerra dai tempi dell’offensiva dello Yom Kippur.

 

Israele oggi vive un momento dei più difficili che lo vede coinvolto in una crisi allo stesso tempo politica, morale e culturale. Nessuno al suo interno credo pensasse Hamas capace di pianificare una vera e propria azione di guerra seguita da un’offensiva di tale efficacia e dagli esiti così terribili. Parte della strategia di Netanyahu è stata quella di incoraggiare il finanziamento di Hamas tramite il Qatar per rafforzarla di fronte all’ANP, ma non però a tal punto da attaccare Israele. Alimentare dunque la rivalità tra queste due entità così che non vi fosse un unico interlocutore con cui negoziare e, di conseguenza bloccare le trattative sulla costituzione di uno Stato palestinese.

 

Morte di un leader: Nella giornata di Martedì 2 Gennaio, giorno prima dell'anniversario dell'uccisione del generale iraniano Soleimani, la radio di Hamas annunciava che un drone lanciato da Israele contro un quartiere della periferia occidentale di Beirut aveva centrato l’edificio nel quale si trovava Saleh al-Arouri, capo dell'ufficio politico e numero due di Hamas, uccidendolo insieme ad altre sei persone. Questa è la prima volta dal 2006 che Israele colpiva la capitale libanese. Al-Arouri era il più alto dirigente di Hamas colpito dall'inizio dell'operazione a Gaza ed uno dei principali avversari dello Stato Ebraico. Insieme ad Hezbollah era anche uno dei coordinatori del "Asse di Resistenza" contro Israele.

 

Se da un lato Hamas faceva subito sapere che questo attentato non ne avrebbe piegato la resistenza e che Israele alla fine verrà sconfitto, lo Stato maggiore ebraico avvertiva che ovunque fossero i suoi capi, sarebbe riuscito a scovarli e li avrebbe colpiti. Un chiaro messaggio per Hamas. Lo schiaffo ad Hezbollah è stato tanto più forte in quanto al-Arouri è stato ucciso in quella che è considerata una della roccaforti del gruppo sciita.

 

Fulminee le reazioni: il premier libanese Mikati accusava Israele di "crimine"; dalla Turchia il presidente Erdogan condannava fermamente l'attacco ed ordinava l'arresto di 34 persone sospettate di spionaggio a favore di Israele. Per sottolineare il suo appoggio alla causa palestinese, egli moltiplicava le invettive contro lo Stato Ebraico ed incoraggiava vaste manifestazioni di protesta. In Cisgiodania il premier dell'Autorità Nazionale Palestinese condannava l'assassinio, mentre nelle vie di Ramallah la popolazione gridava vendetta. Hezbollah, dal canto suo, dichiarava che questa azione non sarebbe rimasta impunita e minacciava ritorsioni. Più cauto, il presidente francese Macron rivolgendosi ad Israele chiedeva di non estendere il conflitto al Libano.

 

Le forze armate israeliane, che si stavano riorganizzando per affrontare a Gaza una guerra di lunga durata allo scopo di sfiancare, prima, ed eliminare, poi, il nemico, avvertivano che era possibile aspettarsi di tutto.

Chi era al-Arouri: Nato a Ramallah in Cisgiordania, all'età di 19 anni al-Arouri si iscrisse all'Università di Hebron per studiare Diritto Coranico. In quel periodo entrò in contatto con l'ala giovanile di Hamas che gli fornì l'occasione di conoscere un agente dell'organizzazione. Scelse di prenderlo con sè affidandogli in seguito il compito di collaborare al finanziamento di una parte del suo apparato militare a Hebron.

 

Fu arrestato per sei mesi nel 1990 a seguito dell'uccisione di tre minorenni israeliani. Passato poco tempo, finì nuovamente in prigione ove trascorse 15 anni per il suo ruolo di leadership in Hamas. Arrestato di nuovo nel 2007, venne rilasciato tre anni dopo, nella speranza di facilitare la liberazione del caporale Gilad Shalit, catturato da Hamas nel 2006. Trasferitosi presso il quartier generale dell'organizzazione a Damasco, si dice abbia avuto un ruolo nella sua liberazione in cambio del rilascio di circa 1000 detenuti palestinesi rinchiusi in Israele. Entrò poi a far parte dell'ufficio politico di Hamas diretto da Khaled Meshaal e fù anche tra i fondatori delle brigate Izz al-Din al-Qassam, braccio armato del gruppo islamico.

 

La guerra civile scoppiata in Siria, a seguito degli eventi della Primavera Araba, lo costrinse ad abbandonare Damasco per tornare in Turchia e riprendere le sue attività con Hamas. Nell'Ottobre 2012 si recò a Gaza per partecipare alla visita dell'emiro del Qatar. Un certo numero di inchieste lo hanno visto coinvolto in operazioni finanziarie clandestine per alimentare le capacità operative degli apparati di Hamas. Si dice fosse anche coinvolto nella pianificazione di operazioni contro Israele e nel reclutamento di nuove leve.

 

Benché il presidente Erdogan fosse al corrente di queste attività, egli non lesinò finanziamenti ad Hamas: non riteneva fosse un'organizzazione terroristica e voleva farne un membro accettabile alla comunità internazionale, cosa che contribuì a danneggiare i rapporti con Israele. Dal canto loro, gli Stati Uniti preferirono chiudere un occhio per non intaccare le loro relazioni con Ankara, partner fondamentale nella NATO ed indispensabile alla loro politica nella regione.

 

Nel Dicembre 2015, a seguito dell'intenzione del presidente Erdogan di migliorare i rapporti con Israele, giravano voci che al-Arouri avesse lasciato Istanbul e facesse la spola tra il Libano ed il Qatar, emirato che per anni aveva ospitato Meshaal e l'ufficio politico di Hamas ed ancora oggi è dimora di alcuni suoi importanti esponenti, quali Ismail Haniyeh, che dal 2019 vi si trova lussuosamente ospitato.

 

L'attentato ad al-Arouri non è stato che un realizzarsi della promessa di Israele di stanare e colpire i responsabili dei fatti del 7 Ottobre. E' inevitabile attendersi ulteriori operazioni di questo tipo.

 

Un secondo attentato: A Kerman, nel sud-est dell'Iran, durante una cerimonia per commemorare il quarto anniversario dell'uccisione da parte americana del generale Soleimani, veniva annunciata la morte di un centinaio di persone ed il ferimento di altre 180. Nessuna rivendicazione faceva seguito e anche in questo caso la data non è stata casuale. Subito dopo l’attentato, il regime proclamava una giornata di lutto nazionale

 

Il generale Soleimani era stato un personaggio di spicco nell'apparato dei Guardiani della Rivoluzione. Ne sovrintendeva le operazioni esterne, avendo anche un ruolo importante nel consolidare e coordinare i rapporti tra il suo Paese, le fazioni palestinesi ed Hezbollah. Particolarmente popolare e carismatico, egli era ben visto anche dagli apparati del regime in quanto privo di ambizioni politiche. Venne ucciso in una rappresaglia da parte americana alle prime luci dell'alba del 3 Gennaio 2020 all'aeroporto internazionale di Baghdad. A colpire la sua auto, un drone. Insieme a lui perse la vita anche il capo delle Forze di Mobilitazione Sciita irachene.

 

Come d’obbligo, l'ayatollah Khamenei prometteva immediatamente una risposta implacabile e severa. Il presidente Biden, dall’altro lato dell’atlantico, escludeva qualsiasi possibilità di un coinvolgimento americano od israeliano. Anche se il regime non era disposto ad ammetterlo, nel paese non mancavano pericoli interni, organizzazioni e strati della società ostili alla Repubblica Islamica che da tempo si interrogavano su come liberarsene. In questo contesto, vanno anche ricordate le proteste seguite alla morte della giovane Mahsa Amini e sempre represse con la massima durezza. Non era da escludere neppure la mano dello Stato Islamico, in passato duramente combattuto dal regime e dai Guardiani della Rivoluzione.

 

Per curiosità, alcuni giorni dopo ho voluto mettermi in contatto con un amico iraniano per avere una sua opinione: era convinto che ad eseguire l’attentato fosse stato lo stesso regime al fine di poter così giustificare ulteriori repressioni contro ogni eventuale dissidenza. Allargando il contesto va ricordato che l'Iran, per emergere nella regione, consolidarvi il suo ruolo di potenza ed estendere la sua influenza, si era eretto a rappresentante della famiglia musulmana e della causa palestinese.

 

Così come è palese che gli Stati Uniti non avessero avuto alcun ruolo nella faccenda, è altrettanto evidente come lo stesso possa dirsi di Israele: quest'ultimo, infatti, non aveva nessun interesse a condurre una simile azione proprio il giorno successivo all'uccisione di al-Arouri a Beirut. Questa dinamica del doppio attentato non ha inoltre nulla a che vedere con il modo di procedere dei servizi israeliani che mai, in passato, avevano eseguito una rappresaglia di questo tipo. Nessuno a Gerusalemme voleva agire in modo tale da rischiare un allargamento del conflitto. Dello stesso avviso il Dipartimento di Stato americano che ha sottolineato come non fosse interesse di nessuno aggravare la situazione in Medio Oriente.

 

I discorsi di Hassan Nasrallah: Nella stessa giornata dell’attentato di Kerman ed a 24 ore di distanza dalla morte di Al-Arouri, il leader di Hezbollah pronunciava un discorso atteso da tutti con interesse. A nessuno sfuggiva la sua determinazione né la sua capacità di agire: se Hamas era un pericolo, molto più grave è quello di Hezbollah, ben meglio armato, addestrato ed organizzato e considerato dalle dieci alle quindici volte militarmente più forte.

 

Nasrallah non ha perduto un attimo ad accusare Israele di genocidio ed attaccare Washington per il suo appoggio all'offensiva su Gaza. Egli ha poi sottolineato l'intenzione di vendicare la morte di al-Arouri, da un lato per solidarietà verso Hamas e dall’altro per scoraggiare futuri attacchi sul suolo libanese, in particolare a Beirut. Questa parte del suo messaggio era destinata soprattutto agli abitanti dei suoi quartieri meridionali dove è avvenuto l'attacco e roccaforte del suo gruppo. In quanto ad Israele, facendo così capire come questo attacco, benché non rivendicato, fosse partito da lì. Se dovesse tentare ulteriori azioni di questo tipo non avrà che da pentirsene e pagarne le conseguenze.

 

Se lo Stato Ebraico - ha continuato il leader sciita - intendesse portare la guerra in Libano, Hezbollah combatterà fino in fondo con decisione e senza regole, limiti o restrizioni: l'uccisione di al-Arouri non è tollerabile, ne resterà senza risposta. Egli sarà vendicato. In questo suo discorso, della durata di un'ora e mezza, ha sottolineato la determinazione e le capacità di resistenza dei suoi combattenti, accusando Israele di non rispettare le decisioni della comunità internazionale e di violare le risoluzioni delle Nazioni Unite.

 

In breve, ha criticato gli Stati Uniti e diffidato lo Stato ebraico ad allargare il conflitto al Libano. Con questi avvertimenti ha lasciato intendere che Hezbollah non vuole andare oltre una campagna a scopo diversivo per costringere Gerusalemme a ritirare le sue truppe da Gaza e spostarle alla frontiera con il Libano per allentare la pressione su Hamas.

 

Da parte libanese, ove non tutti accettavano l’idea di ospitare a Beirut i quadri di Hamas e della Jihad Islamica, migliaia di persone si sono unite al corteo funebre e alle esequie di al-Arouri nel cimitero dei Martiri a Chatila. Tra la folla erano in molti a gridare la loro ostilità verso Israele ed invocare una risposta “a questo crimine sionista”.

 

Incredula di fronte alla durezza dell'aggressione israeliana, la popolazione ha espresso la sua piena solidarietà agli abitanti di Gaza così pesantemente colpiti. Allo stesso tempo si è anche diffuso il timore di trovarsi coinvolti in un conflitto tra Israele ed Hezbollah. Stretto tra due fuochi, lo stesso governo libanese si è più volte pronunciato contro lo Stato Ebraico, accusandolo di comportarsi in modo criminale.

 

Nel suo secondo intervento del 5 Gennaio, anche in questo caso di più di un'ora, il leader di Hezbollah metteva nuovamente in guardia Israele affermando che al momento opportuno avrebbe risposto a dovere alla morte di al-Arouri. Ha poi proseguito con un esame delle operazioni militari condotte alla frontiera, enumerando e descrivendo i vari attacchi e le loro conseguenze sull'apparato difensivo israeliano, oltre che ai danni e le perdite che ha subito. Ha poi confermato che a spingerlo ad agire è stata la volontà di creare un diversivo per Gaza al fine di alleggerire la morsa israeliana. Riguardo lo stesso Israele, con tono minaccioso, ha aggiunto che la situazione si sta facendo più pericolosa e che il rischio di un’intensificazione di azioni militari non fa che aumentare.

 

Spostandoci ad Israele, non si sottovaluta la possibilità di un attacco da parte di Hezbollah e si sa che con tutta probabilità vi saranno delle rappresaglie. Si tratta adesso di prepararsi ad affrontare i possibili scenari. Non a caso, è stata ordinata l'evacuazione di circa 80mila residenti dall'area confinante con la frontiera meridionale del Libano. Lo stesso Stato Maggiore ha dichiarato di non volervi sorprese in quanto riconosce e teme le capacità di Hezbollah, ben più pericolose di quelle di Hamas. Dal lato della Difesa, Il ministro Gallant ha chiesto più volte di agire in modo da allontanare i miliziani di Hezbollah dal confine per costringerli a retrocedere al di là del fiume Litani.

 

Cosa adesso?: Sempre più spesso sento in giro forti preoccupazioni per un possibile allargamento del conflitto, eventualità che reputo piuttosto improbabile : abbiamo a che fare con una partita nella quale ogni protagonista gioca a rialzo per intimorire l'altro, sapendo pero bene che vi sono dei limiti da non oltrepassare. Non conviene infatti a nessuno far precipitare la situazione.

 

Per Israele significherebbe l'apertura di un nuovo fronte che lo metterebbe in serie difficoltà, vista l'intensità dell'operazione in corso a Gaza, le continue tensioni in Cisgiordania, ove già sono morte alcune centinaia di persone ed i costi economici derivanti da tutta la situazione. Riguardo Hezbollah, un collasso dello Stato libanese, che ne sarebbe l'immediata conseguenza, comporterebbe la perdita dell'entroterra senza il quale non ha possibilità di reggersi ed operare. Dal canto loro, i libanesi temono di restarne travolti, soprattutto in considerazione della crisi politica ed economica senza precedenti che stanno traversando. Sarebbe per loro impossibile sopportare il peso di una guerra che li metterebbe inevitabilmente in ginocchio.

 

In breve, questo fronte resta attivo in un contesto di continue tensioni segnate da un ciclo di azione e reazione, con scambi quotidiani di colpi di artiglieria e lanci di razzi. All'uccisione di al-Arouri e di un successivo colpo subito, Hezbollah ha di recente risposto colpendo la base di Safeh in Israele. Ad oggi questi scontri proseguono quotidianamente.

 

Gli altri protagonisti: Ciò di cui si è appena scritto non è il risultato di una crisi unicamente locale: sarebbe necessario allargare lo sguardo al contesto regionale, cosa che meglio aiuterà a capire la situazione e le sue possibili diramazioni. I protagonisti sono vari e molteplici, ognuno dei quali con una propria agenda che non corrisponde alle altre.

 

Cominciamo con l'Iran, che in tutti questi eventi gioca un ruolo di primaria importanza e non esita a far la voce grossa. Ha serie capacità di nuocere e non fa che trarre profitto dagli errori dell’Occidente e da quella che percepisce essere la sua crisi: ha un progetto e non esita a portarlo avanti. Alla pretesa di esportare la Rivoluzione, si è adesso sostituita quella di estendere la sua influenza politica e economica nella regione.

 

Profittando del conflitto scatenato da Hamas, muove le sue pedine con abilità per avanzare i suoi progetti nel vicinato, pesare nella regione ed estendervi la sua influenza. Quel che fa capire è che non vi sarà tranquillità fino a che i suoi interessi non verranno presi in considerazione. La Repubblica Islamica vuole anche porsi come rappresentante della comunità musulmana oltre che delle masse arabe: eccola cosi difendere la causa palestinese ed imporsi nella regione quale attore imprescindibile mettendo in difficoltà i suoi rivali. Malgrado sfoderi una retorica aggressiva, giungendo persino ad invocare "la fine del regime sionista", agisce con cautela e moderazione, perfettamente conscia che vi sono delle linee da non superare. La prima cosa alla quale tiene è la sua sopravvivenza. L’Iran, ricordiamolo, non scende mai in guerra: sono altri a farlo per lui.

 

A Tehran fa certamente comodo destabilizzare la situazione per ostacolare gli accordi di Abramo che, avvicinando Israele ai paesi arabi, finirebbero per isolarla. Nel contesto, la Repubblica islamica appare una potenza moderatrice che non ha nessun interesse ad incendiare l’intero vicinato: Hezbollah, come i suoi combattenti in Siria, le milizie Sciite in Iraq oltre che gli Houthi nello Yemen, servono a mantenere una pressione su Israele e l'Occidente al fine di marcare la sua sfera di influenza e le sue capacità di proiettarsi nella regione.

 

Prima dell’attacco del 7 Ottobre, potrebbe essere che Tehran fosse in contatto con gli Stati Uniti come indicato dallo scongelamento dei suoi 7 miliardi di dollari bloccati nella Corea del Sud. Con tutta probabilità per l’Iran questa guerra è stata una pessima idea: non è stata avvertita da Hamas di quello che sarebbe accaduto ed è possibile pensare che non fossero in sintonia. Teneva a che questi contatti proseguissero ed oggi, inevitabilmente, è tutto sospeso. Le trattative, se c’erano, saranno d’ora in poi molto più difficili, soprattutto se si pensa in una possibile rielezione di Trump.

 

Se questa potrebbe essere un’ipotesi, vi è anche chi pensa che Tehran non solo fosse al corrente dell’attacco di Hamas contro Israele ma avesse addirittura partecipato alla sua realizzazione. Non sono sufficientemente al corrente di quelli che sono stati i retroscena per avere la risposta, ma alla fine poco importa perché la situazione al momento è quella che tutti conosciamo ed è da qui che si deve partire.

 

Alcune parole adesso su Hezbollah: parte del cosiddetto “Asse di Resistenza”, è il gioiello dell’Iran nella regione, conosce bene le debolezze di Hamas e non manca di realismo. Anch’esso non sarebbe stato avvertito dell’offensiva del 7 Ottobre, trovandosi così costretto a muoversi in solidarietà con Hamas. Non per questo è pronto a sacrificarsi per Hamas ed allargare il conflitto mettendo in crisi l’intera regione. Una guerra generalizzata tra Israele ed Hezbollah non potrebbe avere che conseguenze catastrofiche.

 

Conosce i suoi limiti e fino a dove può spingersi. Rappresentante un Islam sciita che vive sulla retorica del martirio, come nel caso di Tehran vuol far vedere che sta offrendo un contributo alla causa palestinese per non dare l'impressione di lasciare sola Hamas. Molto di quello che grida lo fa per comunicare all'Occidente, soprattutto agli Stati Uniti, che se si vuole evitare un’escalation è necessario mettere freno alle operazioni militari di Israele contro Gaza e ai suoi comportamenti ostili nei confronti dei Palestinesi. Per concludere, Hezbollah intende mantenersi le mani libere nella politica interna libanese e continuerà ad intervenire finché Hamas è sotto attacco.

 

Degna di nota anche la disponibilità del premier libanese Najib Mikati. Da Beirut ha indicato la sua disponibilità ad un negoziato con Israele per giungere a definire quella che è la loro frontiera, sino ad oggi mai delineata in modo definitivo. Si tratta di un'evidente indicazione di come lo stesso paese dei Cedri non desideri trovarsi risucchiato in un conflitto fuori controllo.

 

Quanto ad Israele, benché di secondaria importanza per il premier Netanyahu, restano vive in parte della società le preoccupazioni per la sorte degli ostaggi ed il desiderio di un negoziato con Hamas in vista di un loro rilascio. Questa guerra sta spaccando il paese e non mi sembra azzardato dire che l’unico ad avere convenienza in un prolungamento del conflitto sia proprio lui.

 

Tutto ciò sta avvenendo in un momento di grandi difficoltà politiche ed istituzionali per lo Stato Ebraico. Nella giornata del 7 Ottobre erano state infatti programmate delle imponenti manifestazioni in tutte le principali città del Paese contro la riforma della giustizia mirante a ridurre i poteri della Corte Suprema. Critiche anche contro le misure dell’estrema destra nazionalista e fondamentalista e delle provocazioni nei confronti dei palestinesi di Cisgiordania. In questo vasto movimento di protesta erano coinvolti anche molti riservisti dell’esercito, oltre ad elementi facenti parte degli apparati di sicurezza. Inutile dire che queste tensioni abbiano suscitato in Hamas la percezione di una debolezza interna da sfruttare.

 

Il premier Netanyahu si sta mostrando del tutto impermeabile alle pressioni internazionali, i sondaggi lo danno in calo e restano sempre aperti i suoi contenziosi con la giustizia. I suoi rapporti con Washington non sono buoni e con tutta probabilità gioca a prender tempo nella speranza di una vittoria di Trump alle presidenziali. E’ conscio che la fine del conflitto significherebbe il termine della sua carriera politica. La guerra per lui non potrà dunque che continuare fino a che non verranno liberati gli ostaggi, debellata Hamas e Gaza resa inabitabile: continuare ad avanzare e distruggere tutto. Ma poi?

 

Gli stessi Stati Uniti stanno facendo il possibile per assicurarsi che non vi sia una deriva che porti ad un allargamento del conflitto. Si rendono conto di quanto precaria e facilmente infiammabile sia la situazione ed intendono tenerla sotto controllo: agiscono come agente moderatore, arrivando fino a confrontarsi duramente con l'alleato israeliano sulle modalità della conduzione del conflitto. Per lanciare un monito, soprattutto all’Iran, di non andare troppo oltre ed infiammare la situazione, hanno inviato una possente squadra navale al largo della costa siro-palestinese.

 

La Repubblica Islamica lo ha capito talmente bene che ritorce l’argomento diffidando Israele dal proseguire i suoi attacchi sul Libano. Questi infatti non potranno che avere conseguenze negative. In parallelo, accusa Washington di ipocrisia per inviare miliardi in aiuti militari allo Stato Ebraico, cosa che sul lungo andare non potrà che mettere a rischio la pace nella regione.

 

Washington vuole una tregua e qualche forma di accordo rendendosi conto dell’impatto che ha sul mondo la situazione a Gaza. Gli Stati Uniti sono gli unici fornitori di munizioni ad Israele che senza questo loro contributo non potrebbe battersi per più di qualche giorno. Questo è un elemento di forza sul quale, se reputato indispensabile, potrebbero esercitare pressioni. Per la Casa Bianca vi è anche da tener conto dell’impatto negativo che questo conflitto sta avendo sulla Sinistra Democratica e su più della metà dei giovani elettori vicini al partito, tutti ostili a questa guerra condotta da Israele.

 

Uno sguardo adesso all’Arabia Saudita. Cosciente dei pericoli in corso, si fa sentire il meno possibile limitandosi ad esprimere le sue preoccupazioni e chiedere ai vari protagonisti di mantenere la calma, il controllo e soprattutto la cessazione delle ostilità a Gaza. Similmente ai suoi vicini del Golfo, impauriti e preoccupati dal corso degli eventi, si trova costretta a prendere le distanze da Israele e tenere un profilo basso per non suscitare proteste al suo interno. Come nel caso dell’Iran, dati i suoi precedenti ed ancora attuali coinvolgimenti con Beirut, non le conviene vedere il Libano precipitare nel caos.

 

Per il principe ereditario Mohammed bin Salman gli attacchi del 7 Ottobre sono stati un disastro: ciò a cui più tiene è la stabilità regionale al fine di proseguire i suoi investimenti e consolidare il suo potere. Va detto: non è per nulla interessato al popolo Palestinese, ma solo allo sviluppo economico ed ai suoi grandiosi piani di investimento per piazzare il regno nel mondo di domani. Bloccando il suo ravvicinamento con Israele, indispensabile alla stabilità regionale, Hamas gli ha sconvolto tutti i suoi progetti.

 

Gli accordi di Abramo sono stati sospesi e saranno in futuro condizionati dal ritiro di Israele dai Territori e dalla nascita di uno Stato palestinese. Come visto prima, in questi accordi la questione palestinese era assente. Al momento il giovane Mohammed bin Salman non se la sente di riaprire nulla. Insieme ai regimi arabi del Golfo è disposto a partecipare alla ricostruzione ed al rilancio di Gaza, serve però un accordo di pace: di fronte all’opinione pubblica araba, che sostiene con vigore la causa palestinese, allo stato attuale delle cose ripartire con questi accordi non gli è possibile. Il principe ereditario sa anche bene che la monarchia saudita era storicamente vincolata alla difesa degli interessi palestinesi e non vuole certo oggi lasciare al solo Iran il ruolo di rappresentare questi ultimi.

 

Non molto distante la posizione della Giordania nelle cui piazze sta salendo la popolarità di Hamas, unica a mostrarsi capace di rimettere sul tavolo la questione palestinese. Anche lei converge sulla necessità di abbassare le tensioni, avendo come obbiettivo primario la stabilità. Il suo re, come gli altri sovrani e capi di Stato della regione, sa bene di non poter ignorare la voce delle piazze che dal Marocco all’Indonesia si stanno mobilitando a favore della causa palestinese ed in difesa dei luoghi santi dell’Islam di Gerusalemme.

 

Anche l’Egitto opera da agente moderatore e come tutti gli altri regimi della regione cerca di barcamenarsi e tenersi buona la popolazione. In contatto con i servizi di Israele e capace di dialogo con Hamas, il presidente al-Sisi cerca di mettere un coperchio su questa crisi che vede inevitabilmente coinvolto anche il suo paese. Per la natura stessa del suo regime, egli ha una forte avversione per l’Islam politico e meno sente parlare di Hamas e dei Palestinesi, meglio è per lui.

 

Con il paese in piena crisi economica, ciò che meno vuole è farsi coinvolgere dagli Houthi ed aprire le sue frontiere ad un flusso di profughi palestinesi costretti a lasciare le devastazioni di Gaza. È attualmente impegnato in trattative tra Stati Uniti, Qatar, Israele ed Hamas nello sforzo di raggiungere qualche accordo capace di portare alla liberazione degli ostaggi e calmare le tensioni. Intanto, per via degli attacchi degli Houthi sul naviglio commerciale nel mar Rosso, l’Egitto ha perduto tra il 40 ed il 50% degli introiti provenienti dal canale di Suez.

 

Arabia Saudita, Giordania ed Egitto detestano Hamas in quanto espressione dei Fratelli Musulmani. Sanno che devono però tener conto dei sentimenti della piazza che la sente vicina e l’appoggia. I regimi Arabi sono inevitabilmente costretti a mostrar simpatia per i Palestinesi anche se in passato han fatto poco o nulla per loro: al più han tentato di migliorarne il tenore di vita, non volendo però prenderne in considerazione le richieste politiche e dar loro seguito. Come detto in precedenza, a nessuno di loro conviene che sia Tehran ad ergersi come rappresentante della causa Palestinese.

 

Due righe, per completare il quadro, sull’Autorità Nazionale Palestinese. Quest’ultima si mostra sempre più evanescente e delegittimata per via della sua crescente perdita di rappresentatività che la porta ad esser scavalcata da organizzazioni estremiste quali Hamas, con l’inevitabile risultato di ulteriori radicalizzazioni ed aumento della violenza.

 

Incapace di esprimere nulla di concreto, l’Europa resta senza voce ed in posizione di estrema debolezza. Malgrado i suoi inviti alla moderazione, Putin opera per la destabilizzazione e si rallegra per l’apertura di un nuovo fronte che potrebbe portare ad un allentamento del sostegno militare all’Ucraina da parte di Washington. Se questa crisi dovesse protrarsi egli potrebbe anche avvantaggiarsi di un aumento dei prezzi degli idrocarburi. Più prudente invece Pechino, che malgrado le parole di condanna ad Israele ed un invito alla cessazione delle ostilità, è interessata soprattutto alla stabilità per via degli approvvigionamenti energetici a prezzi contenuti e allo sviluppo dei suoi commerci attraverso la nuova Via della Seta.

 

Considerazioni finali: Malgrado l’inevitabile retorica pregna di minacce e propositi bellicosi, figlia di un contesto nel quale nessuno vuol farsi declassare, ogni attore in questa partita agisce su un piano diverso cercando di avanzare i propri interessi e quelle che sono le sue visioni riguardo lo scacchiere regionale. E' dunque necessario andare oltre le grida e le minacce per rendersi conto che il contesto è fragile e che ogni parte intende a modo suo sopravvivere. Non è dunque interesse di nessuno oltrepassare certi limiti ed allargare il conflitto.

 

Resta ineluttabile la necessità di una soluzione politica, anche se può dipendere con chi realizzarla: sarà necessario uno sforzo diplomatico che guardi oltre a ciò che si è sinora fatto e proponga qualcosa di veramente inedito. In poche parole, innovare e pensare al di fuori degli schemi finora seguiti. Prendendo atto dell'eclissi dell'Europa e del caos che regna in Medio Oriente, i soli in grado contare restano sempre gli Stati Uniti che sono però sul punto di entrare in campagna elettorale. Visti i candidati in lizza, queste elezioni saranno cruciali anche perché ciò che sta accadendo in Medio Oriente finirà con l’avere un impatto sulla politica interna americana.

 

A volte le tragedie possono nascondere delle opportunità e penso questa crisi vada colta come una grande occasione: vi sono dei periodi nei quali certi problemi, una volta posti, trovano necessariamente la loro soluzione e dato che in politica estera tutto è collegato, non vi può essere un avvio di equilibrio in un’area senza includervi quella limitrofa. Fino a che non si giunge ad un accordo comprensivo non potrà esservi in quell’area un paese tranquillo.

 

Una pace non si vince che con delle idee e, con la dovuta immaginazione, questa crisi può diventare l’occasione giusta per risolvere problemi che si sono trascinati per anni e passare dalla distruzione alla costruzione, dal disordine all’ordine. La soluzione del problema Palestinese non è solo in Palestina ma in Medio Oriente. E da qui che sarà necessario partire per ricomporre la regione.

 

Resta ancora molto da fare, ma Washington ritiene possibili ulteriori passi avanti. Come però avviene in ogni trattativa, più ci si avvicina allo scopo più ogni parte cerca di alzare la posta. Il problema è però che più si aspetta e si combatte meno è probabile che tutti gli ostaggi possano sopravvivere. Questa situazione non può che definirsi cruciale in quanto ciò che stiamo seguendo in Medio Oriente non potrà non avere anche un impatto sul corso della politica interna americana.

 

Auguriamoci che partendo da queste considerazioni chi di dovere trovi sufficiente fantasia e creatività per unire i punti, aggiungere ciò che manca e trovare la soluzione adatta: bisogna aver chiaro il problema da risolvere e rendersi conto che non sarà possibile tornare a prima della giornata del 7 Ottobre. Resta dunque ancora molto da fare, ma è necessario partire dall’idea che le migliori soluzioni diplomatiche si reggono da sé solo se basate sul consenso delle parti: le soluzioni puntellate dalla forza non vanno al di là di essa. La buona diplomazia non getta mai la spugna e guarda sempre avanti.

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