La guerra di Putin

 

Prima di inoltrarmi nell’esplorare a grandi linee una cronaca di questa guerra, penso sia di fondamentale importanza partire dalla seguente osservazione:

 

E’ del tutto inaccettabile che un paese come la Russia, uno dei 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con diritto di veto ed in più potenza ufficialmente nucleare per aver esploso un ordigno prima del 1 Gennaio 1967, possa permettersi di invadere ed addirittura minacciare l’uso di armi atomiche contro un paese che non ne possiede. Questo genere di comportamento, oltre ad essere moralmente deplorevole, di fatto sancirebbe la fine del Trattato di non proliferazione.

 

A rendere questa situazione ancora più riprovevole, il fatto che una nazione grande come la Russia se la prenda con un paese tanto più piccolo e debole. La Russia si estende infatti su 11 fusi orari ed è circa 23 volte più grande dell’Ucraina. La sua popolazione è di tre volte e mezzo superiore ed il suo Pil sfiorava due anni fa i 1660 miliardi di dollari contro i 131 miliardi di quello ucraino.

 

Antefatto: Il 6 Gennaio del 2021, a due settimane dalla cerimonia di insediamento del nuovo presidente Joe Biden, una folla variopinta di facinorosi sostenitori di Trump irrompeva nella sede del Congresso, simbolo della democrazia americana: erano convinti che fosse stato derubato della sua vittoria elettorale. Vi furono 5 morti e 140 feriti. Tra le vittime, un agente di polizia.

 

Per molti i quattro anni di presidenza Trump avevano indebolito le strutture dello Stato e le sue istituzioni democratiche. Altri, più pessimisti, vedevano quest’episodio come un pericoloso avvertimento sulla fragilità delle democrazie liberali. Trump, dal canto suo, aveva annullato una conferenza stampa prevista in Florida e negato alla commissione investigativa l’accesso ai suoi documenti ufficiali. Appoggiato dalla sua base elettorale, egli restava convinto che l’elezione gli fosse stata rubata: decine di milioni di persone si erano infatti recate alle urne per dargli il loro voto, spesso con vero entusiasmo.

 

Il risultato finale delle elezioni aveva messo a nudo un Paese che mostrava di aver perduto le sue certezze. Da questa campagna elettorale era emersa una società profondamente divisa e radicalizzata da fratture non solo politiche, ma anche culturali. Diversi commentatori politici parlavano addirittura di una faglia che rischiava di minare l’integrità della nazione, oltre che di un attacco alla Costituzione e alla democrazia che aveva tradito lo spirito del paese e le sue aspirazioni a governarsi.

 

Di fronte a questa situazione il nuovo presidente si sarebbe dovuto confrontare con l’immensa sfida di ricucire le ferite del paese e restituire fiducia nel buon funzionamento delle istituzioni. Si trattava di riconciliare ed unire la nazione, sanare le divisioni all’interno del suo stesso partito, galvanizzando il suo elettorato. In breve, rimettere in piedi l’America, compito che lo avrebbe portato a concentrarsi innanzitutto sui problemi interni.

 

Di riflesso, egli avrebbe avuto anche un gran da fare in politica estera: in questo contesto e dopo quattro anni di amministrazione Trump, Biden doveva ripristinare l’immagine degli Stati Uniti e porre il tema della difesa della democrazia al centro della sua azione internazionale: si sarebbe affacciato al mondo appellandosi alla Storia e ai valori della democrazia americana.

 

Gli Stati Uniti avevano perduto parte di quell’aura e di quel potere di persuasione che li circondavano dal secondo dopoguerra. Non senza preoccupazioni, un certo numero di studiosi iniziava ad interrogarsi sulla decadenza delle grandi nazioni del passato e dei loro sistemi politici. Ai loro occhi vi erano in gioco equilibri di potenza, la diffusione nel mondo della democrazia e la capacità stessa degli Stati Uniti di rappresentare autorevolmente gli interessi dell’Occidente.

 

Nel corso di questi ultimi decenni era andata affacciandosi sulla scena internazionale un insieme di potenze autoritarie – definite revisioniste – che si erano impegnate in una sfida contro le democrazie liberali. I capofila di queste nazioni sono la Cina e la Russia, che hanno accolto con soddisfazione i segnali di debolezza provenienti dagli Stati Uniti e lo sgomento che andava crescendo nel resto dell’Occidente: la loro partita sarebbe quella di destabilizzarlo per impedirgli di contribuire efficacemente alla definizione dei futuri assetti mondiali e soprattutto ostacolare l’influenza americana. Tra di loro, più che di alleanza sarebbe il caso di parlare di intesa.

 

Questi regimi autoritari vedevano il mondo occidentale come inerte, sfiduciato e privo di certezze: le democrazie apparivano molli ed in stato di irreversibile decadenza e loro, al contrario, si sentivano con il vento del futuro in poppa. All’ombra di queste visioni del mondo si celavano antiche ambizioni imperiali, moderne logiche di potenza, interessi da difendere e opposte visioni della Storia.

 

Sviluppi successivi: All’inizio del mese di Gennaio dello scorso anno scoppiavano manifestazioni di protesta nel Kazakhstan, presto tradotte in uno scossone per quel regime che lo hanno costretto a chiedere aiuto ai paesi vicini. Per stabilizzare la situazione ed evitare ulteriori disordini sono poi arrivati in fretta dalla Russia carri armati e paracadutisti. Il Kazakhstan era una delle quindici Repubbliche sovietiche e considerato il paese più stabile della regione.

 

Con calma glaciale, il presidente Kassym Tokaiev si era presentato in tv ordinando ai militari e alle Forze dell’ordine di sparare sulla folla. Con tono minaccioso aveva aggiunto che chi non intendeva arrendersi sarebbe stato eliminato senza preavviso: “Come si può trattare con dei criminali e degli assassini? Vanno annientati e lo faremo presto”. Era evidente che questa situazione presentava due aspetti, l’uno interno e l’altro regionale.

 

In quest’insieme di Repubbliche ex-sovietiche, che andavano dall’Armenia alla Georgia e all’Azerbaijan, senza escludere l’Ucraina e la Bielorussia, negli ultimi anni si erano viste emergere delle criticità. Era intenzione del presidente Putin tenere intorno a sé questi territori, oggi indipendenti: aveva risposto agli appelli di Tokaiev perché temeva che simili movimenti di protesta potessero sfuggire di mano, estendersi a macchia d’olio ed un giorno contagiare la Russia stessa. Non poteva che avere in mente le giornate di piazza Maidan, da lui definite “un colpo di Stato”, che tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 erano riuscite a spodestare l’autocrate ucraino Yanukovich, politicamente vicino a Mosca.

 

Verso una situazione pericolosa: La settimana successiva si incontravano a Ginevra una delegazione russa ed una americana. Al centro del dibattito, la crisi alla frontiera con l’Ucraina. Pur dichiarando che non avrebbe fatto concessioni, il governo russo escludeva la possibilità di un intervento militare. Ciò nonostante, per sottolineare la serietà dei suoi propositi manteneva un tono minaccioso quando, a otto anni dall’annessione della Crimea e dagli accordi di cessate il fuoco nella regione separatista del Donbass, le armi continuavano a farsi sentire.

 

Putin non voleva un’Ucraina ancorata all’Europa e legata all’Occidente, chiedendo inoltre che non entrasse nella Nato insieme alla partenza dei militari americani dalla Polonia e dai Paesi Baltici. In poche parole, recuperare la sua sfera di influenza ai confini occidentali della Russia e vedere rimossi i 60 mila soldati americani stanziati in Europa: si trattava di riscattare le umiliazioni che avevano fatto seguito al collasso dell’Unione Sovietica, all’invasione finanziaria dell’Occidente e poi bloccare l’allargamento della Nato a paesi un tempo parte dello spazio sovietico.

 

Da parte loro gli Stati Uniti dichiaravano inaccettabili le proposte russe ed insistevano sull’inviolabilità delle frontiere, l’integrità territoriale ed il rispetto della sovranità nazionale: se costretti, avrebbero imposto delle sanzioni. La politica delle porte aperte con Kiev doveva continuare, ma erano comunque disponibili ad un negoziato.

 

Aveva poi fatto seguito un vertice tra Stati Uniti, Russia e OCSE. Bruxelles era stata tenuta ai margini, non solo perché fragile e militarmente non decisiva ma anche perché la Russia, per affermare il suo status di grande potenza, aveva scelto la via del dialogo diretto con Washington. Alla fine non vi fu nessun accordo.

 

Restava l’impressione che Mosca, piuttosto che attaccare l’Ucraina, avrebbe voluto destabilizzarla per poi infilare un piede nel processo decisionale europeo e negoziare con gli Stati Uniti sulla sicurezza del continente. Ci si era fatti l’idea che il presidente Putin non intendesse annettere l’area del Donbass: gli sarebbe costato troppo. Più conveniente gli sarebbe stato mantenere sospesa la situazione per poi ritirarsi in cambio di un veto sull’ingresso dell’Ucraina nella Nato. Malgrado le divergenze e l’assenza di risultati, restava aperta la disponibilità a proseguire il dialogo.

 

Tramontato il bolscevismo, per molti osservatori il presidente russo voleva ergersi ad apostolo del glorioso passato della Russia. Trovandosi però a capo di una potenza non più all’altezza di quei tempi, egli aveva in ogni caso deciso di ridarle prestigio estendendo la sua impresa sulle regioni limitrofe.

 

Da qui la sua operazione dell’estate 2008 in Georgia, la graduale ripresa di una politica di potenza con l’intervento in Siria e Libia, l’annessione della Crimea, le pressioni sulla regione secessionista del Donbass, le manovre militari ai confini dell’Ucraina ed il suo appoggio a Lukashenko in Bielorussia e poi a Tokaiev nella recente crisi in Kazakhstan. Aveva forse in mente le parole di Brzezinski, Consigliere per la Sicurezza del presidente Carter, che aveva affermato che senza l’Ucraina la Russia sarebbe stata una potenza diminuita.

 

Puntando sull’inerzia di Obama, che non era intervenuto in Siria dopo aver tracciato una “linea rossa” sui bombardamenti chimici e sull’immobilismo dell’Europa, Mosca aveva messo le mani sulla Crimea e poi fomentato una ribellione separatista nella regione orientale del Donbass. Di riflesso, l’Ucraina aveva spinto per un suo ingresso nella Nato.

 

Per risolvere le tensioni tra Kiev e i russofoni delle repubbliche di Donetsk e Lugansk, Russia, Ucraina, Francia e Germania diedero vita ai cosiddetti accordi di Minsk. I primi due paesi non fecero molto affinché questi venissero rispettati. Il Cremlino ha poi ritenuto che né Parigi, né tantomeno Berlino avessero fatto tutto il necessario per uscire dallo stallo. Per Putin tanto valeva trattare direttamente con gli Stati Uniti: il presidente Biden aveva però fatto intendere che non avrebbe abbandonato l’Europa e che non vi sarebbe stato nessun accordo senza coinvolgere Bruxelles.

 

Quanto ai vertici politici e militari di Kiev, il timore non era tanto quello della possibilità di un’invasione da parte russa, quanto piuttosto che l’Europa potesse cedere di fronte a quelli che consideravano i bluff di Putin. Quest’ultimo mostrava i muscoli allo scopo di ottenere benefici politici: in breve, nessuna invasione in cambio di concessioni. Per mostrare la volontà di difendere il suolo patrio gli ucraini avevano risposto creando delle Unità di Difesa Territoriale.

 

Si aggrava la crisi: Dopo un viaggio a Kiev e poi a Ginevra per incontrarsi con il suo omologo russo Lavrov, il Segretario di Stato Antony Blinken si fermava anche a Berlino per un incontro con il collega francese e quello britannico. Dopo il suo rientro a Washington si diffondeva l’impressione che quella ucraina fosse la crisi più grave dai tempi della guerra fredda: il Cremlino aveva indicato che l’Alleanza Atlantica doveva ritirarsi dalle Repubbliche Baltiche ed impegnarsi a non includervi mai l’Ucraina. La Bielorussia annunciava imminenti manovre militari congiunte con la Russia sul proprio territorio. In risposta, la Svezia dispiegava contingenti militari nel Baltico, il Regno Unito inviava armi anticarro a Kiev e gli Stati Uniti autorizzavano i Paesi Baltici a fornirgli armi di fabbricazione americana.

 

Da Mosca il presidente Putin premeva sulla Nato affinché desse risposte concrete. Questa ribatteva che non avrebbe ceduto ma che sarebbe comunque rimasta aperta ad ulteriori trattative. Tra discussioni infruttuose e dialogo tra sordi, appariva sempre più urgente trovare una soluzione diplomatica.

 

Londra denunciava il tentativo da parte russa di sovvertire il governo ucraino per imporre una dirigenza di comodo. Il premier Johnson rincarava la dose parlando di una nuova Cecenia e della possibilità di un conflitto violento, sanguinario e disastroso. Le autorità di Kiev si appellavano a Bruxelles chiedendole di restare unita di fronte alle provocazioni di Mosca e ringraziavano inoltre per gli aiuti e l’appoggio ricevuto, pur continuando a non credere in un’invasione russa. Dalla Russia partiva una richiesta di ritiro delle forze Nato dalla Romania e dalla Bulgaria.

 

In un crescendo, Kiev accusava Mosca di incrementare il numero di armi inviate ai separatisti del Donbass, li Stati Uniti aggiungevano altri 200 milioni di dollari ai 450 milioni già stanziati in assistenza militare per le Forze armate ucraine e la Nato comunicava che in caso di attacco da parte russa non era comunque previsto l’invio di contingenti militari in Ucraina. Putin dichiarava di continuare a sperare in una soluzione diplomatica.

 

La situazione era la seguente: per l’Occidente non era concepibile che uno Stato imponesse la propria volontà ad un altro, né tantomeno che lo aggredisse militarmente: avrebbe appoggiato l’Ucraina contro ogni sorta di aggressione. La Russia voleva invece dimostrare la sua forza diplomatica nell’orientare le scelte degli occidentali. La sua capacità di dialogare direttamente con gli Stati Uniti mostrava che il suo interventismo l’aveva portata ad essere nuovamente una superpotenza: l’aver portato gli occidentali al negoziato era visto come una vittoria. Molto meno convincente quando parlava di una volontà espansionistica della Nato.

 

Sarebbe utile ricordare che mentre il presidente Putin era intervenuto in Georgia, Siria e Libia, invaso la Crimea e provocato una secessione nell’area del Donbass, l’Alleanza Atlantica non si era mai mossa. Quest’ultima aveva anche dichiarato che non avrebbe dislocato armi nucleari nei paesi dell’Europa Orientale, né accettato nuovi paesi come membri. Fra americani ed europei vi era adesso una forte unità di intenti e Biden si consultava regolarmente con i suoi alleati.

 

Restando eminentemente europea, questa crisi rendeva sempre più urgente trovare una soluzione che consentisse alle parti di uscirne a testa alta, anche perché all’Unione Europea serviva il gas russo così come alla Russia erano necessari i clienti occidentali.

 

Inizia il mese di Febbraio: Nella partita si inseriva anche il presidente turco Erdogan proponendo una mediazione: oltre ad avere buoni rapporti con l’Ucraina, vi aveva anche sviluppato un partenariato di sicurezza e con la Russia, invece, collaborava in Siria, aveva acquistato i missili S400, importava gas dalla Gazprom ed aveva anche in fase di realizzazione congiunta una centrale nucleare ad Akkuyu.

 

Il presidente francese Macron ed il cancelliere tedesco Scholz si erano recati separatamente in visita da Putin per resuscitare gli accordi di Minsk e ripristinare l’azione del formato Normandia. Poco dopo iniziavano le manovre congiunte tra Russia e Bielorussia: veniva comunicato che sarebbero durate dieci giorni ed avrebbero coinvolto qualcosa come 30 mila uomini. Annunciata anche una serie di manovre navali nel mare di Azov. Giungeva a Mosca anche il ministro degli Esteri inglese per un incontro con il suo omologo Lavrov. Quest’ultimo rimproverava l’Occidente di non prestare orecchio alle preoccupazioni del suo paese.

 

La Nato intanto rinforzava le sue posizioni nell’est Europa, mentre da Washington il presidente Biden chiedeva ai cittadini americani residenti in Ucraina di lasciare il paese. Il ministro degli Esteri russo ribatteva che “a poco servivano le minacce e gli ultimatum: non portano a niente”. Il balletto diplomatico non faceva che prolungarsi. Forse per costringere Putin ad uscire allo scoperto, il presidente americano comunicava che da un giorno all’altro la Russia avrebbe attaccato e che l’Occidente si trovava di fronte al pericolo di un’invasione.

 

Mosca ribatteva di non avere la minima intenzione di invadere l’Ucraina. Si trattava solo di una serie di normali esercitazioni militari per l’addestramento delle truppe e nulla avevano a che fare con l’Ucraina. Tra visite, incontri, annunci e telefonate ogni parte continuava a giocare con le ambiguità: erano tutti allo stesso tempo pronti alla guerra e disponibili al negoziato.

 

A metà mese lo Stato Maggiore russo comunicava l’inizio del ritiro dei contingenti che manovravano ai confini ucraini. A Mosca la Duma esprimeva il desiderio di indipendenza per le repubbliche secessioniste di Lugansk e Donetsk e lo comunicava al presidente Putin: il problema ucraino veniva così fatto rimbalzare in Parlamento e 700mila passaporti russi venivano distribuiti con la scusa di proteggere i separatisti.

 

Intanto si intensificavano gli scambi di artiglieria nel Donbass, con le due parti che si accusavano a vicenda. Di fronte al crescere delle tensioni il presidente Putin parlava di un aggravamento della situazione ed i leader separatisti delle due repubbliche consigliavano ai loro cittadini di cercare rifugio in Russia: si trattava di far credere un imminente pericolo di aggressione da parte delle truppe di Kiev, pronte a commettere un genocidio.

 

L’impressione che Putin voleva dare era di venire in soccorso alla comunità russofona del Donbass: si mostrava abile, in quanto ogni sua mossa gli consentiva di mantenere aperte le precedenti opzioni, creandosene sempre delle nuove per esaltare l’opinione pubblica. Lasciava gli avversari nell’incertezza per meglio condurre la propria partita.

 

In Ucraina la nazione si strigeva intorno al presidente Zelensky e oltre metà della popolazione si dichiarava pronta a battersi contro la Russia. Per gettare acqua sul fuoco le forze armate di Kiev annunciavano di non voler passare all’offensiva ma che si sarebbero limitate a rispondere ai colpi di artiglieria dei separatisti che avrebbero colpito le aree da loro controllate.

 

La propaganda trasmessa dai media di Mosca persuadeva molti del pericolo di un attacco da parte delle Forze armate ucraine e che la Russia, in risposta, avrebbe fatto di tutto per salvare i separatisti del Donbass: secondo questa narrazione, la Russia nella sua storia non aveva mai attaccato nessuno, piuttosto si era impegnata a salvare tutti. Gli unici responsabili di queste paure erano gli ucraini ed i loro sostenitori americani. Così facendo, nella mente collettiva venivano riportati a galla ricordi di genocidi del passato. Rievocando l’era sovietica, in cui Kiev poteva considerarsi come la terza potenza nucleare al mondo, la Russia aveva oggi alle sue porte una superpotenza pronta ad aggredirla chiamata Ucraina.

 

Mentre questa si preparava a vivere momenti difficili, alla fine della terza settimana di Febbraio giungeva la notizia del riconoscimento da parte di Mosca dell’indipendenza delle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk. Questi due distretti corrispondevano a poco meno della metà della regione del Donbass, il resto era sotto il controllo del governo di Kiev. Con questo annuncio veniva sancita la fine degli accordi di Minsk.

 

Sottoscritto il 5 settembre 2014 sotto l'egida della Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, il Protocollo di Minsk era un accordo per porre fine alla guerra nell'Ucraina orientale. Includeva rappresentanti di Ucraina, Russia, Repubblica Popolare di Donetsk e Repubblica Popolare di Lugansk, oltre che la mediazione di Francia e Germania. Succeduto a diversi precedenti tentativi di cessare i combattimenti nella regione orientale del Donbass, l’accordo prevedeva un cessate il fuoco immediato, lo scambio dei prigionieri e l'impegno da parte dell'Ucraina di garantire maggiori poteri alle regioni di Donetsk e Lugansk. Nonostante abbia portato ad un'iniziale diminuzione delle ostilità, tuttavia l'accordo non è stato rispettato.

 

Con il riconoscimento da parte di Mosca dell’indipendenza delle due repubbliche, questi accordi sono da considerarsi decaduti e non più validi. Per Parigi e Berlino si era trattato di una doccia fredda, dato che di questi sono state le garanti. In risposta, a Bruxelles i ministri europei si erano riuniti per elaborare un piano di sanzioni che avrebbe previsto tra le altre cose, anche la mancata certificazione del gasdotto North Stream II e il proposito di sanzionare gli istituti bancari russi chiudendo al paese l’accesso al mercato europeo. Il presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen esprimeva l’intenzione di diversificare le fonti di approvvigionamento di petrolio e gas per diminuire la dipendenza energetica dalla Russia.

La giornata del 23: Giungeva la notizia che il Senato russo aveva approvato l’invio di truppe in soccorso ai separatisti del Donbass. Per il presidente Biden si trattava dell’inizio di un’invasione. La Gran Bretagna rincarava la dose, ritenendo probabile che Mosca volesse impossessarsi di Kiev. Da parte ucraina si ordinava la mobilitazione dei riservisti per venire in aiuto alle Forze armate. Da Mosca si annunciavano “risposte decisive e dolorose” alle sanzioni occidentali e veniva poi ordinata l’evacuazione del personale diplomatico dall’Ucraina. In risposta, Kiev avvisava i suoi cittadini in Russia di rientrare nel Paese e proclamava lo stato di emergenza.

 

Alle Nazioni Unite il Segretario Generale Guterres ammoniva sul pericolo del momento e lanciava un appello in nome dell’umanità. Il presidente Putin si dichiarava pronto ad aprire un dialogo per trovare una soluzione alla crisi in corso, ammonendo però che gli interessi e la sicurezza del suo Paese non erano negoziabili. Partivano nel frattempo una serie di attacchi informatici a danno dei siti del governo ucraino, del ministero degli Esteri, del Parlamento e di alcune banche.

 

Il presidente Zelensky avvertiva che in Ucraina si stava decidendo l’avvenire della sicurezza europea. Dal lato occidentale partiva la richiesta di garanzie immediate di sicurezza e si parlava della possibilità che la città di Mariupol, distante circa 20 km dal fronte del Donbass, diventasse un obbiettivo: con il suo porto e le sue industrie è un importante polmone economico lungo la via che unisce la regione secessionista alla Crimea, annessa da Mosca nel 2014.

 

Il Segretario della Nato Stoltenberg annunciava la mobilitazione di uomini, navi ed aerei per difendere lo spazio dell’Alleanza e mostrarne l’unità. Dichiarava inoltre di sostenere le aspirazioni di libertà e democrazia dell’Ucraina e di rifiutare la violazione dello stato di diritto.

 

E’ guerra: La mattina di Giovedì 24 Febbraio l’Ucraina si svegliava in stato di guerra.

 

Il presidente Putin aveva dato l’autorizzazione per un’azione militare nel Donbass promettendo di rispondere a chi si fosse messo di traverso. Ai militari ucraini chiedeva invece di deporre le armi ed arrendersi. Da Washington, la Casa Bianca esprimeva la sua più ferma condanna per questa aggressione ingiustificata e lamentava “le gravi sofferenze e le perdite catastrofiche che ne sarebbero seguite”. Venezuela, Nicaragua, Cuba e Siria offrivano il loro pieno appoggio al presidente russo. Più prudente la Cina.

 

Per Stati Uniti, Nato ed Unione Europea si era trattato di un colpo molto grave: calpestando il suo desiderio di libertà, democrazia e sovranità nazionale era stato attaccato il Paese più grande d’Europa. Autorizzando quest’attacco contro una nazione indipendente, Putin tentava di ridisegnare col sangue le frontiere dell’Europa. Per questo atto non vi era nessuna giustificazione.

Mentre si sentivano esplosioni nei centri portuali di Mariupol e Odessa così come pure nella città di Kharkiv, la seconda più grande del Paese, dalle Nazioni Unite giungeva direttamente la richiesta al presidente Putin di porre fine alle ostilità e dare un’opportunità alla pace. Nessuno era certo di cosa stava accadendo: carri armati russi intanto attraversavano posti di frontiera, si vedevano volare elicotteri e continuavano a sentirsi esplosioni. Arrivavano notizie di attacchi sulla capitale, su Dnipro e Lutsk mentre le operazioni sembravano estendersi sul tutto il territorio.

 

Da Kiev il presidente Zelensky lanciava un appello al popolo russo chiedendo di fermare la guerra prima che fosse troppo tardi: “Spetta a voi cittadini dire qualcosa se il governo rifiuta di sedersi con noi e dialogare”. Da parte sua e anche dal ministro della Difesa arrivava un appello alla calma diretto alla popolazione e la richiesta di non uscire di casa: così però non è stato e file di macchine iniziavano ad abbandonare i grandi centri abitati.

 

Si formavano code di fronte a banche, farmacie e negozi di generi alimentari. Veniva inoltre legalizzato l’acquisto di armi da parte dei civili. Alle Unità di Difesa Territoriale veniva dato il compito di difendere le città mentre le Forze armate avevano l’ordine di difendere le frontiere. Gli scopi dell’attacco russo restavano sconosciuti: era infatti abitudine di Putin non rivelare le sue intenzioni. Voleva creare incertezza e da lui giungeva solo l’avviso che per chiunque avesse interferito vi sarebbero state “conseguenze mai viste prima nella Storia”.

 

Gli Stati Uniti proponevano nuove sanzioni da calibrare secondo l’evolversi degli eventi, restava però il fatto che Washington non sarebbe entrata in guerra contro la Russia. Putin aveva utilizzato i negoziati per guadagnare tempo e mentre tutti pensavano che la guerra fosse definitivamente scomparsa dall’Europa, ecco che improvvisamente ne scoppiava una attentando alla pace e ai suoi equilibri.

 

Un giocatore d’azzardo: Confesso di essermi sbagliato pensando che l’agitarsi minaccioso di Putin non avrebbe dato seguito ad un’invasione militare. Dell’uomo diffidavo non poco, ma non credevo arrivasse al punto di scatenare una guerra. Lo ritenevo un abile e spregiudicato giocatore d’azzardo, sempre pronto a nutrirsi delle debolezze altrui. Il suo gioco era quello di sollevare minacce permanenti per poi alzare la posta e portare ogni situazione al limite. In risposta, bisognava restare calmi, evitare di reagire alle sue provocazioni e non soccombere al ricatto della paura: alla fine avrebbe saputo fermarsi in tempo.

 

Era già dal mese di Settembre dello scorso anno che il presidente russo aveva ordinato l’inizio di manovre militari spostando truppe alla frontiera con l’Ucraina. A Novembre vi erano ammassati circa 90mila soldati accompagnati da un gran numero di veicoli militari, carri armati e pezzi di artiglieria. Ne era presto seguita una serie di polemiche con gli Stati Uniti e l’Europa. Polemiche che col tempo si erano fatte sempre più roventi.

Le richieste di Putin mi erano note e pensavo che ogni abile negoziatore prima di sedersi al tavolo delle trattative gioca sempre al rialzo per chiudere la partita nel modo a lui più vantaggioso. In poche parole, una collaudata tecnica negoziale portata al limite per poi trattare con in mano le migliori carte possibili. Avevo fatto male i conti: così non è stato e quella che mi era apparsa come un’abile tattica negoziale per cercare di disegnare un nuovo ordine internazionale si è di colpo trasformata in un’invasione.

 

Fino a quel momento, al presidente russo era piaciuto aprire molti fronti per sondare la risolutezza dell’Occidente e la consistenza dell’Europa. Il suo intento era di avere alle sue frontiere degli Stati cuscinetto che poteva controllare e che non avessero ceduto alle sirene della democrazia. Priva di una diplomazia e di una forza militare degne di questo nome, l’Europa era ai suoi occhi capace solo di svolgere un ruolo marginale ed in quanto agli Stati Uniti, li considerava indeboliti e preoccupati da gravi problemi interni: di fronte alla passività dell’Occidente tanto valeva tentare una guerra.

 

Questa invasione non era stata dettata da un capriccio e neppure da un’improvvisazione, quanto piuttosto da un piano preparato da tempo. Se questo evidenzia il mio errore, dove invece non mi ero sbagliato era sull’esito del conflitto. Al mio Tavolo di politica estera avevo sottolineato come Putin avesse fatto male i conti e che con la sua modalità di invasione avrebbe presto incontrato grosse difficoltà e subito ingenti perdite. Se la guerra si fosse inoltre trasformata in guerra di popolo era destinato a non farcela.

 

A remare contro il presidente russo anche il fatto che la potenza militare di una nazione si basa soprattutto sulla forza delle sue istituzioni e della sua economia.

 

La guerra di Putin: Parto dall’idea che questa è la guerra di Putin e come tale è difficile prevederne gli esiti: tutto è nella sua testa. Questo è tanto vero che la stessa CIA aveva consultato un gruppo di psichiatri per cercare di sondare lo stato della mente del leader russo. Lo stesso aveva fatto il premier israeliano Bennett quando si era recato al Cremlino per valutare la possibilità di una mediazione: l’interprete che lo aveva accompagnato era di fatto un esperto analista della mente umana.

 

Sia gli americani che gli israeliani erano giunti alla conclusione che Putin fosse razionale, ma con una propria visione della Storia. E’ bene ricordare le sue parole quando aveva affermato che la data più sciagurata del XX secolo era stata quella del giorno del crollo dell’Unione Sovietica. Questi eventi hanno ferito nel suo profondo l’animo del presidente russo al punto di portarlo ad una tragica metamorfosi.

 

Con i suoi circa 150 mila uomini, l’esercito che Putin ha inviato in Ucraina non è certo sufficiente per domare un paese di 44 milioni di abitanti grande poco più della Francia: una forza di invasione dunque, non di occupazione, considerando che per attaccarla Hitler nel 1940 aveva schierato 140 divisioni. Per occupare Berlino nel 1945, città con un numero di abitanti simile a quello di Kiev, le forze sovietiche furono costrette a raderla al suolo e subire qualcosa come 100 mila morti. In tempi più recenti basti pensare ai 400 mila uomini che Parigi aveva inviato in Algeria ai tempi della guerra di indipendenza. Nel 2003, al momento dell’attacco all’Iraq, la coalizione contava intorno ai 300 mila soldati e negli anni della guerra del Vietnam la punta massima degli effettivi americani aveva toccato le 550 mila unità.

 

Le Forze armate russe contano in totale circa 900 mila effettivi. Quelle terrestri ammontano a 280 mila uomini, il grosso essendo costituito da coscritti la cui leva dura 12 mesi. La preparazione è dunque bassa: un tempo si sarebbe parlato di carne da macello. Il numero di truppe inviato in Ucraina indica che quest’invasione ha rappresentato uno sforzo convenzionale ma comunque oneroso. Non resta che pensare, anche in vista delle armi impiegate, che il piano iniziale fosse quello di una guerra lampo il cui scopo era abbattere l’avversario, arrivare in tempo brevissimo a Kiev, decapitarne il potere politico per sostituirlo con un governo di comodo e possibilmente tagliare l’accesso meridionale del paese al Mar Nero. Non la conquista del paese dunque, quanto un’opportunità per aprire delle trattative a suo vantaggio il più rapidamente possibile.

 

Se questo era il piano di Putin, è certamente fallito e dopo appena un mese l’offensiva aveva perduto vigore. Oggi non gli resta che affrontare la realtà: a 10 mesi dall’inizio delle ostilità gli ucraini non sono crollati, sono riusciti a fermare l’avanzata russa per poi riprendersi centinaia di chilometri quadrati di territorio inclusa Kherson, la sola capitale regionale in precedenza conquistata dai russi. Con l’arrivo dell’inverno il fronte si è stabilizzato ed i russi stanno effettuando incessanti attacchi aerei contro le infrastrutture energetiche del paese allo scopo di fiaccarne la popolazione e spezzarne la volontà di resistenza.

 

La situazione oggi: Il grosso degli scontri si è ora concentrando su Bakhmut e dintorni. La quantità di mezzi e di uomini impiegati mi fa pensare come per russi ed ucraini questo centro sia diventato un simbolo: i primi non possono mollare e rifiutano di cedere, i secondi perché alla ricerca di una vittoria. Intanto questa città, che un tempo contava 70 mila abitanti, è ridotta ad un cumulo di macerie.

 

Scegliendo di impegnarsi più direttamente nella conduzione delle ostilità, il presidente Putin sta mostrando di non aver rinunciato a nulla: ha spinto l’industria militare a lavorare a pieno ritmo mentre vi sono ancora decine di migliaia di soldati non schierati sul fronte. Sta inoltre rinforzando i suoi dispositivi e ridispiegando le forze in vista di un possibile nuovo attacco. Per lui, più gli ucraini soffriranno il freddo, il buio e la fame, meglio sarà. In quanto ai governi occidentali, si augura causar loro tali difficoltà da costringerli ad accettare una trattativa.

 

Schieratasi su posizioni difensive, la Russia impiegherà la stagione invernale per inviare più soldati sulla linea del fronte, consolidare le sue difese ed impedire alle forze armate ucraine di riconquistare ampie porzioni di territorio perdute. Mentre la popolazione sotto continuo attacco aereo cerca di sfidare la paura, le Forze armate di Kiev dichiarano di attendersi un’offensiva russa per l’arrivo del nuovo anno: il tipo di armi richieste e la loro precisa quantità non può che destare il sospetto che questa previsione sia fondata su informazioni piuttosto attendibili.

 

Giunti fino a qui, per avere una risposta sullo svolgersi degli eventi sul campo non resta che chiedersi: fino a che punto potranno reggere gli ucraini e fino a che punto la Russia sarà in grado di sostenere lo sforzo bellico?

 

Un conflitto armato si risolve solitamente o con l’annientamento dell’avversario o con un accordo. E’ dunque indubbio che sarà necessario giungere ad un cessate il fuoco il quale non potrà che derivare da una decisione politica del presidente Putin. Le trattative saranno determinate dall’andamento della situazione sul campo destinata a farsi più difficile per le forze armate ucraine con l’ingresso dell’anno nuovo. Questo spiega in parte il viaggio del presidente Zelensky a Washington.

 

Nel corso dell’incontro alla Casa Bianca, il presidente Biden gli ha garantito l’invio di una batteria di missili antiaerei Patriot e fornito ulteriori aiuti per quasi 2 miliardi di dollari. Il Congresso vi ha aggiunto uno stanziamento di 45 miliardi di dollari che verrà erogato per l’anno prossimo. Zelensky non è però riuscito a portarsi a casa ciò che voleva di più: aerei da combattimento, carri armati e missili a lunga gittata. Ciò si spiega con la volontà di Washington di impedire un allargamento del conflitto, pur offrendo all’Ucraina armi sufficienti per limitare il potere offensivo russo, costringere Putin a rendersi conto dei suoi limiti e ad accettare un negoziato.

 

Alcuni aspetti di questa guerra – le forze armate: Il presidente Putin ha deciso la guerra senza consultare nessuno e con piena fiducia nelle sue capacità. Animato da un viscerale furore anti-occidentale, egli si è lanciato in quest’avventura nel desiderio di lasciare una sua impronta nella storia russa.

 

Ad alimentarne le intenzioni, quell’intero manipolo di sicofanti ed opportunisti che gli stanno intorno: a sentirli, si sarebbe quasi trattato di una passeggiata. A onor del vero, vi erano elementi nelle forze armate preoccupati e contrari a questa invasione ma che però non sono stati ascoltati. Putin è così entrato in guerra avendo sopravvalutato le capacità delle sue forze armate in quanto lui stesso vittima delle menzogne raccontate dalla cerchia dei suoi collaboratori.

 

I comandanti del corpo di invasione non avevano dubbi sull’esito della guerra ed erano pienamente fiduciosi in una vittoria. Si aspettavano di penetrare in profondità in territorio ucraino, vincere nello spazio di pochi giorni per poi organizzare una grande parata al centro di Kiev. Le capacità di resistenza degli ucraini sono state del tutto sottovalutate e nessuno ha mai creduto che si sarebbero battuti con tanta tenacia, coraggio e convinzione. Nel giro di poco tempo l’esercito russo è stato bloccato per essere poi parzialmente distrutto nella peggiore catastrofe militare dalla fine dell’Unione Sovietica.

A ricordarcelo, le parole di un soldato ricoverato in un ospedale militare nei pressi di Mosca. Quasi tutti i suoi commilitoni erano stati spazzati via dalla resistenza degli ucraini. “Questa non è una guerra, ma la distruzione del popolo russo da parte dei suoi stessi comandanti”. Cos’era accaduto?

 

Le forze armate russe erano poco preparate e fiaccate da anni di distrazioni di fondi, scorciatoie, furbizie ed episodi di corruzione che avevano coinvolto migliaia di militari. Le informazioni fornite all’esercito erano inesatte e le mappe militari sulle quali si basava l’offensiva non aggiornate. L’impianto militare che è stato lanciato contro l’Ucraina era oneroso, rigido e sclerotico, i soldati male equipaggiati, non adeguatamente addestrati e scarsamente nutriti. Le comunicazioni lasciavano a desiderare e la logistica pessima. Spesso il carburante veniva a mancare, non vi erano abbastanza autocisterne e persino gli alloggi erano inadeguati. Quest’esercito entrava in guerra con armi vetuste, poche munizioni, praticamente senza copertura aerea e con scarso appoggio da parte dell’artiglieria.

 

La maggior parte di loro proveniva dalle più distanti regioni della Russia, quali la Buriazia ed il Daghestan con tutte le sue varie etnie. Sono stati scelti perché tra i più poveri e per motivi politici data la loro distanza con gli aggrediti e per evitare che le perdite facessero più rumore del dovuto. Altri invece erano coscritti raccolti nelle provincie occupate dai russi, ai quali erano stati aggiunti gruppi di separatisti e mandati al fronte con armi risalenti alla Seconda Guerra Mondiale. Tra le loro istruzioni, quella che avrebbero imparato a combattere una volta raggiunte le prime linee.

 

Un certo numero di unità non facevano neppure parte delle forze armate di Mosca: erano mercenari i cui ranghi erano stati rimpolpati da gente reclutata nelle carceri sotto la direzione di un ex cuoco di Putin. Altre erano composte da combattenti ceceni al comando di chi era noto come il “macellaio di Grozny”. In campo anche gruppi di miliziani provenienti dalla Siria ed elementi di forze speciali afghane in precedenza addestrati dagli americani. Per mancanza di munizioni di epoca sovietica, Mosca è dovuta ricorrere agli arsenali della Corea del Nord. Dall’Iran acquistava invece molti dei suoi droni, così come elmetti e giubbotti antiproiettile.

 

Come se ciò non bastasse, l’attacco è stato caratterizzato da uno sforzo mal coordinato e sostenuto da un sistema logistico che faceva acqua da tutte le parti. Questo è tanto vero che non pochi generali vi hanno rimesso la pelle per recarsi al fronte e vedere di persona come risolvere queste inefficienze, soprattutto l’assenza di una catena di comando intermedia capace di decidere autonomamente. L’offensiva sta logorando le forze armate russe e ha messo a nudo tutti i limiti dell’apparato militare di Mosca, che risulta fragile e mal organizzato. Queste stesse forze armate sono demoralizzate e poco motivate.

 

A farla breve, un trionfo di dilettantismo, incompetenza ed improvvisazione. Verso la fine dell’estate, di fronte alla controffensiva ucraina e all’aumento delle perdite, il presidente Putin ha ordinato una mobilitazione parziale richiamando alle armi circa 300 mila uomini. Anche in questo caso i coscritti sarebbero stati spediti al fronte senza l’addestramento necessario. Tutto ciò ha suscitato preoccupazione, paura, se non addirittura rabbia, tanto che centinaia di migliaia di giovani russi sono emigrati altrove per dirigersi in Finlandia, Turchia, Serbia, Georgia, Armenia e persino in Kazakhstan.

 

L’aspetto religioso: Il passaggio da parte del Patriarcato di Kiev sulla data delle festività natalizie e del Capodanno dal calendario giuliano, adottato dalla Chiesa Ortodossa russa, a quello gregoriano aiuta a capire l’aspetto religioso e anche culturale di questa guerra.

 

Se è vero che nel corso dell’era sovietica il Patriarcato di Mosca ha dato più martiri di qualsiasi altra chiesa dell’intera nazione, oggi in Russia Stato e Chiesa si muovono assieme e già nel 2014 il Patriarca Kirill aveva dato il suo appoggio alla politica espansionista del Cremlino. In risposta, la Chiesa Ortodossa d’Ucraina aveva poi deciso di separarsi da quella russa nel 2018. Come appena visto, in segno di ulteriore distacco ha oggi adottato il calendario gregoriano: è il suo modo di dare una risposta al perché i russi stanno invadendo l’Ucraina e marcare la sua distanza da Mosca.

 

La propaganda russa: Per giustificare quest’invasione, Putin non ha esitato a mettere in funzione un apparato propagandistico capace di creare una realtà parallela. Ad assisterlo in questo, l’opera dei servizi segreti e delle grandi società mediatiche, oltre a giornalisti, conduttori televisivi ed alcuni intellettuali.

 

Il presidente russo ha innanzitutto tacitato ogni forma di opposizione mediatica. Sono state presto chiuse Radio Medusa, Svoboda, Ekho Moskvy, CNN e Dosht. Alla fine tra i vari media ne sono stati chiusi 290 in quanto non allineati al regime. Abolita anche tutta la stampa non finanziata dal Cremlino. Dal canto suo, la Duma ha votato all’unanimità una legge che consente di condannare fino a 15 anni chi dà “notizie false”.

 

Tanto per cominciare, si giocava con le parole in quanto era vietato parlare di guerra, ma di un “operazione militare speciale”. Si trattava poi di una “liberazione” e non di un’ “invasione”. Le responsabilità e le colpe ovviamente non potevano che essere dell’Occidente, in quanto animato da una volontà di sterminare il popolo russo come in precedenza lo avrebbero voluto fare i nazisti.

 

Passando all’Occidente, questo mentiva riguardo la pace e preparava un’aggressione facendo cinicamente uso dell’Ucraina e del suo territorio. Suo scopo era sfruttare questa guerra per conservare la sua egemonia, indebolire la Russia, dividerla, isolarla e distruggerne l’economia. Le sue parole esprimevano solo ipocrisia. Mosca, sentendosi accerchiata, non aveva altra scelta che resistere e difendersi.

 

Quanto agli ucraini, si trattava di una banda di nazisti e di mangiatori di uomini pronti ad aggredire la Russia, la cui politica si fondava sulla libertà. Riguardo il Donbass, le intenzioni di Kiev erano quelle di massacrare la sua popolazione, oltre che bruciarne ed annegarne i bambini: non erano che dei neo-nazisti in atto di condurre un’operazione militare allo scopo di fare un genocidio. Senza andare oltre, questo dovrebbe essere sufficiente a rendere l’idea.

 

Questa guerra di propaganda e disinformazione si estende anche al fronte dove le forze russe hanno subito perdite importanti sia in termini di uomini che di mezzi, oltre che circa il 30% dei territori occupati. Soprattutto poco attendibili le cifre fornite sul numero delle vittime sul campo, che tra morti e feriti, di fatto ammonterebbero a qualcosa come 100 mila uomini.

 

Ulteriori considerazioni: Essendo tutt’ora in corso il conflitto mi astengo dal far previsioni, anche se attualmente l’avanzata russa ha subito un battuta d’arresto con la conseguente perdita di qualcosa come il 20% dei territori occupati in precedenza. Malgrado insistenti attacchi russi contro la popolazione civile e le infrastrutture energetiche, gli ucraini mantengono tutt’ora l’iniziativa sulle linee del fronte. La tenacia delle forze armate di Kiev sono un grande esempio di come l’aspirazione alla libertà possa aver la meglio sulla minaccia dell’autoritarismo.

 

Con l’inverno in corso è possibile che l’andamento del conflitto possa mutare ancora: gli ucraini continuano a ricevere armi, mentre la Russia sta migliorando le sue difese attestandosi meglio ed inviando più soldati al fronte. Se dovessero passare all’attacco, le forze armate di Kiev incontrerebbero maggiori difficoltà nel proseguire la loro offensiva. E’ certo che la brutalità degli attuali attacchi russi e le distruzioni massicce che stanno provocando non invoglieranno il presidente Zelensky a negoziare e scendere a patti. Putin pure non è pronto: anche se per il momento in ritirata, la Russia possiede ancora un notevole potenziale distruttivo. Sia che per l’uno che per l’altro, un accordo dipenderà dal riequilibrio della situazione sul campo. Se ne parla poco ma molto sarà determinato dalle condizioni climatiche, dato che sino ad oggi un clima relativamente mite ha reso il terreno fangoso e quindi difficile la circolazione dei mezzi pesanti.

 

Credo sia il caso di soffermarsi su alcuni aspetti di questo conflitto. Cercherò di essere il più breve possibile perché ognuno di questi meriterebbe un intero articolo solo per sé.

 

Le ragioni di Putin: Abbiamo visto in precedenza come sulla scena internazionale erano apparse alcune potenze descritte come revisioniste, in quanto non soddisfatte dell’attuale ordine mondiale. E’ interessante notare come tutte abbiano avuto un passato imperiale che aveva dato loro un ruolo preponderante nella Storia: si tratta di Cina, Russia, Turchia e Iran. Queste nazioni conservano una lunga memoria e hanno un atteggiamento di rivalsa verso l’Occidente, giudicato responsabile di buona parte dei loro guai e della loro decadenza. Oggi sono tutte governate da regimi autoritari.

In questi paesi si è diffusa la sensazione che le democrazie occidentali fossero fiaccate ed in decadenza: stavano perdendo l’esclusività del potere, non dominavano più il mondo e comunque non ci si poteva più fidare di loro. Qual è ora il loro perimetro geografico? A seguito di questo declino apparivano nel mondo degli spazi da occupare: a trarne vantaggio ci avrebbero pensato queste nazioni.

 

Con la fine della Guerra Fredda, il mondo da bipolare ha dato per un breve momento l’impressione di muoversi in una sola direzione: quella delle democrazie e del libero mercato. Cosciente della forza del suo esempio, l’Occidente aveva pensato di essere in grado di orientare le sorti del mondo, al punto che si era addirittura giunti a parlare della fine della Storia.

 

La Storia si è presa la sua rivincita: il mondo è diventato globale e le cose sono andate complicandosi. Oggi, a causa di una serie di crisi affacciatesi dagli inizi di questo secolo, l’Occidente sembra aver perduto sia il suo lustro che la fiducia in se stesso e lo scenario internazionale si è fatto multipolare. Segnali di questo cambiamento sono stati la crisi finanziaria globale, la Primavera araba, l’epidemia di Coronavirus e lo scoppio di questa guerra col suo strascico di conseguenze. Tutto questo ha infranto gli equilibri del passato, cambiato le regole e reso evidente che l’Occidente non era più in grado di dominarlo.

 

La Russia: Con l’arrivo di Putin al potere si era sviluppata la convinzione che dopo il 1991 la Russia fosse stata tradita dall’Occidente. Era tempo adesso di cambiare la Storia e ristabilirne la grandezza. Dietro a questo non vi erano solo considerazioni di natura politica ma anche correnti culturali di stampo mistico-nazionalista. A tutti gli effetti, e soprattutto dopo le sconcertanti modalità del ritiro americano dall’Afghanistan, si era radicata in lui la convinzione che gli occidentali non solo non fossero più capaci di fare la guerra, ma non riuscissero neppure più a concepirne l’idea: erano potenze dalle armi spuntate.

 

In quanto all’Ucraina, si trattava semplicemente di un errore della Storia: comunque appartiene alla Russia ed è stato anche un grave sbaglio creare Stati indipendenti all’interno di quelle che un tempo erano le frontiere dell’Unione Sovietica. Per il presidente russo, il suo crollo è stata la più grande catastrofe geopolitica del secolo scorso, un’enorme umiliazione sulla quale egli ne ha costruito delle altre per poi darsi le credenziali per agire. Si entra a questo punto in un’altra dimensione, quella del simbolico e dell’immateriale.

 

Conclusione: La guerra di Putin ha fatto crollare quelle nozioni di sicurezza e quelle idee di pace che avevano finora prevalso in Europa. Dopo aver vissuto anni di prosperità e di stabilità, il continente si trova oggi di fronte ad una fase di passaggio, ad un periodo meno sicuro e più incerto. Nel giro di poco tempo l’Europa si è sentita vulnerabile ed esposta: oltre ad aumentare l’efficienza delle sue attuali forze armate, si è resa anche conto di dover sviluppare e potenziare le proprie capacità militari. Diventa perciò indispensabile un sistema di difesa europeo ed ancor prima una politica estera comune di cui quella militare sarà il braccio.

 

Per l’anno che si apre non vedo nessuna prospettiva negoziale. I bombardamenti di Capodanno, diretti contro la popolazione civile piuttosto che su obbiettivi infrastrutturali, ne sono la dimostrazione data la valenza simbolica in Russia di questa giornata.

 

Putin non prevedeva un conflitto di questa durata e non può non essersi reso conto che il tempo gioca a sfavore di chi attacca e che una delle caratteristiche delle guerre odierne è che tendono a concludersi in modo ben diverso da quello che all’inizio le parti avrebbero considerato accettabile: le soluzioni diplomatiche a questo punto non potranno che dipendere dagli sviluppi sul terreno. Un’ulteriore aspetto delle guerre moderne è che all’inizio nessuno era mai riuscito a predirne la durata.

 

Il presidente russo ha sottovalutato la caparbietà e la resistenza mostrate dal popolo ucraino, così come ha fatto male i suoi calcoli riguardo al comportamento delle componenti internazionali, in questo caso Stati Uniti e gli altri Paesi Nato, che continuano a rifornire le forze armate di Kiev con una notevole quantità di armi. L’Occidente si è mostrato compatto anche sulle sanzioni, che a loro volta stanno pesando sulle capacità della Russia di condurre la guerra.

 

L’Europa in questa situazione non ha quasi toccato palla e benché il presidente russo mantenga una parvenza di diplomazia parlando con tutti, non resta da pensare che la guerra potrebbe chiudersi solo se a muoversi in vista di un accordo saranno Stati Uniti e Cina: per Putin la Russia è una grande potenza e non possono che essere loro i suoi interlocutori di scelta. Questo è tanto più vero se si pensa che ad oggi nessuno è in grado di determinare l’esito di questo conflitto perché tutto dipende da Putin ed entrambi gli avversari sono in stato di sofferenza.

 

Se in futuro l’Europa vorrà contare qualcosa, non potrà che fare i propri compiti a casa e dotarsi di un’iniziativa oggi totalmente assente. Quanto all’Italia, che finora di politica estera aveva capito poco, dovrà impegnarsi in questa direzione.

 

Tornando al presidente russo, non vi è segno che voglia porre fine alla guerra: c’è da credere che la sua azione si basi sul principio che non vi possa essere una sconfitta. Per alcuni osservatori questo conflitto potrebbe però trasformarsi in un serio pericolo per la sua sopravvivenza politica. Le forze armate russe sono state costrette a ripiegare da tre aree del fronte: prima da quella intorno a Kiev, poi dalla regione nord-orientale di Kharkiv ed infine dalla capitale meridionale di Kherson. Questi insuccessi non solo stanno creando dubbi in parte della popolazione, ma anche tra alti dirigenti politici ed elementi delle forze armate.

 

Per altri il presidente russo dispone ancora di risorse importanti ed il sistema da lui creato non può dirsi alla fine: le élite e i gruppi di potere che gli sono vicini continueranno ad appoggiarlo per interesse e per paura. La struttura di potere edificata da Putin in questi 23 anni è piuttosto opaca e rende difficile intravedere ciò che potrebbe accadere dietro alle mura del Cremlino.

 

Putin è abituato a contare sulla forza, ma se dovesse subire una sconfitta corre il rischio di fare la fine di tutti quegli autocrati che perdono le guerre. La forza infatti è la sua sola fonte di legittimità ed in una situazione che ne evidenzia l’assenza, quest’ultima rischia di precipitare a zero: chi è al potere prima o poi deve rendere conto delle sue azioni e nulla distrugge la reputazione di un leader quanto i suoi errori in politica estera.

 

Il presidente russo manca di quell’autorità derivante dalla legittimità e ciò che alla fine ne giustifica il potere è il successo. Le sconfitte subite dalle sue forze armate stanno minando quell’immagine di forza e di competenza che ha impiegato oltre vent’anni a costruirsi. Se dovesse perderla, per lui potrebbe significare la caduta.

 

Nessuno alla fine è più cieco dei cosiddetti realisti della politica. Si ricordi il presidente Putin che se anche le bugie hanno vita lunga, specie quando servono, le leggi della Storia finiranno con l’imporsi e che la verità esiste, anche se non ha l’appoggio del potere. Con questa guerra egli potrà distruggere le infrastrutture civili e colpire i quartieri popolari, ma non riuscirà mai ad impossessarsi dell’Ucraina: l’avrà perduta per sempre ed alla fine avrà messo a rischio, oltre al suo, anche l’avvenire della Russia e del suo popolo. E’ solo dalla cooperazione e non certo dall’isolamento che nasce la prosperità dei popoli.

 

Se non per generosità, è per necessità che il resto del mondo dovrà capire come per allontanare ogni pericolo di guerra, sarà necessario creare attraverso l’indipendenza delle nazioni e la loro cooperazione su basi esclusivamente democratiche quell’ordine internazionale capace di assicurare a tutti i popoli libertà e prosperità.

 

A questo punto non resta che fare alcune considerazioni sulla pace. E’ buona norma che quella migliore si concluda senza vincitori né vinti e che non si possa giungere ad un accordo duraturo se si mortifica l’avversario. Le migliori soluzioni diplomatiche sono dunque quelle che si reggono da sole, senza i puntelli della forza: tengono perché basate sul consenso delle parti. Una pace non è buona se non è accettata da entrambi i lati.

 

Tornando al caso di questa guerra, un conflitto armato si risolve di solito o con la resa del nemico oppure con un accordo. Per meglio definire la questione sarebbe necessario capire fino a che punto potranno reggere gli ucraini e fino a che punto la Russia sarà in grado di sostenere lo sforzo bellico. Finché una delle due parti non cesserà di voler avere la meglio sull’altra lo scontro non potrà che prolungarsi: si entra infatti in quella classica spirale nella quale ognuno dei contendenti è costretto a far di più appena l’altro inizia a intravedere qualche progresso sul campo. E’ tutto un rincorrersi.

Le parti in conflitto dovranno decidere quali e quante risorse impiegare e a che livello di distruzione arrivare per vincere o almeno non perdere la guerra. La questione fondamentale resta sempre quella di determinare quali saranno i termini delle trattative, ma con tutta probabilità alla fine non resterà che abbracciare quel compromesso necessario basato sul principio del “cosa vuoi tu”, “cosa voglio io” e “cosa vogliamo tutti e due”.

 

In questa prospettiva, riguardo l’Ucraina vedo possibile una soluzione di neutralità che non preveda l’ingresso nella Nato. Dovrebbe anche rendersi disponibile ad un compromesso sul Donbass. Non credo cederà sulla Crimea anche se forse, per comprensibili motivi storici e culturali, si potrebbe trovare un modo per affidare alla Russia la base di Sebastopoli. Mosca dovrebbe invece ritirarsi da tutte le aree occupate, accontentarsi di alcune solide garanzie e rinunciare ad ulteriori offensive o manovre di destabilizzazione a danno dell’Ucraina.

 

Per adesso la situazione è bloccata. Zelensky vorrebbe ottenere sul campo quel genere di situazione che gli consenta di negoziare: per lui non vi può essere un negoziato finché il suo Paese sarà sotto attacco di chi ne nega l’esistenza. Il presidente sottolinea come l’Ucraina non abbia paura, continuerà a battersi, non arretrerà, terrà le sue posizioni e vincerà. A farla breve, per intavolare un negoziato Mosca dovrà prima ritirarsi da tutti i territori occupati.

 

Putin risponde che si auspica la guerra cessi al più presto, ma che nel frattempo fornirà senza badare a spese i mezzi necessari alle sue forze armate: egli raggiungerà i suoi obbiettivi e tutti i piani andranno a buon fine. Rimane pronto e aperto al dialogo purché si basi sull’accettazione della nuova realtà territoriale.

 

Mentre per Pechino il percorso verso le trattative non sarà agevole, gli Stati Uniti e l’Occidente dichiarano che continueranno a soddisfare le richieste di Kiev pur non inviando armi più letali in grado di colpire la Russia. Nessuno ha intenzione di superare quella soglia che rischierebbe di allargare il conflitto. Resta indubbio che senza il sostegno dell’Occidente l’Ucraina non sarebbe in grado di sopravvivere.

 

In questo momento i due avversari stanno cercando di riprendere fiato e prepararsi per la prossima fase della guerra i cui esiti dipenderanno non solo da fattori meteorologici, ma anche dall’evoluzione della situazione sul campo e dalla direzione che prenderà la diplomazia.

 

E’ indubbio che Putin intenda continuare la sua guerra fino alla vittoria. Resta però da capire cosa intenda con questo termine: in guerra, più che da considerazioni militari la condotta è dettata da motivazioni politiche e sono soprattutto queste che determinano le decisioni. La determinazione delle due parti di prevalere spiega per ora il motivo del prolungarsi di questo conflitto. Quel che è certo è che la guerra di quest’anno sarà diversa da quella iniziata a Febbraio. Per il presidente russo il problema non sarà quello di vincere, perché non potrà farlo, ma di trattare la pace.

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