Alcune riflessioni sul passato della politica estera americana
Introduzione: Senza andare troppo indietro nel tempo, dall’inizio del secolo abbiamo visto insediarsi alla Casa Bianca quattro amministrazioni diverse tra loro: dal repubblicano Bush, bianco, ricco, ex-governatore del Texas e bene inserito nell’establishment americano al democratico Barack Obama, nero, di origini modeste, con un padre kenyota ma cresciuto dalla madre e dal brillante trascorso accademico. Successivamente è stato eletto Trump, magnate immobiliare di New York, narcisista, autoritario, bugiardo ed inaffidabile, per finire poi con Joe Biden, uomo rispettabile e perbene, politico di professione, dalla vasta esperienza e per otto anni già vice-presidente dello stesso Obama: inutile dire che per entrambi le vedute sulla politica estera sono su quasi tutto divergenti.
Ognuno di loro a modo suo ha rappresentato un aspetto dell’America, ha voluto guarirla e correggerne la direzione. Ha soprattutto iniziato il proprio mandato con l’intenzione di dare la precedenza alle questioni interne. Il successivo corso degli eventi li ha spinti a coinvolgersi nelle questioni internazionali probabilmente molto più di quello che avrebbero desiderato. Così facendo, hanno dato una loro impronta alla politica estera degli Stati Uniti anche se poi, malgrado le differenze, si è visto come le loro decisioni sono state spesso simili e in più di un modo ancorate alle passate tradizioni della politica estera americana.
Per meglio capire queste posizioni, in alcuni casi contraddittorie, sarebbe utile collegarle a concetti come l’esportazione della democrazia, il multilateralismo, la difesa dei diritti umani e la cooperazione internazionale. Di fronte a questi, l’ ”America First” di Trump, lo slogan “Make America Great Again”, con il loro distanziarsi dagli accordi internazionali, dalle alleanze e l’unilateralismo che ne conseguono. Dietro a tutto ciò, quelli che sono stati i princìpi fondanti della nazione americana e della sua politica estera, partendo dall’idea della “città sulla collina”, dell’isolazionismo, del “Destino Manifesto” e della “Dottrina Monroe”.
Di alcune di queste idee all’estero si parla spesso, ma altrettanto spesso non sono del tutto comprese. Con Biden assistiamo ora ad un ritorno di una politica di valori, fondata sull’idea della superiorità della democrazia di fronte all’autocrazia e alle dittature. In futuro, a secondo delle circostanze e della personalità di chi siede alla Casa Bianca, si tornerà nuovamente a parlare con tutta probabilità di isolazionismo, di interventismo, oppure in altri casi di distanziamento o di cooperazione.
A chi osserva gli eventi è necessario per comprenderli meglio trovare quel giusto equilibrio tra quelle che sono le spinte di forze impersonali, ad esempio visioni ideologiche e nazionalismo, e quelli che sono i tratti salienti del carattere e della persona che sta al comando. Di questi esempi la Storia è piena.
E’ anche necessario non volgersi al passato con gli occhi del presente: ogni periodo ha le sue peculiarità che vanno osservate nel contesto del loro tempo e non confuse e giudicate col modo di vedere di altri periodi: sarebbe un grave errore e porterebbe ad una falsificazione della Storia. Una cosa, ad esempio, sono gli Stati Uniti del XVIII e del XIX secolo ed un’altra quelli odierni nei quali, con la fine della Guerra fredda, si è passati dalla relativa stabilità e semplicità di un mondo bipolare alla confusione e all’imprevedibilità dei nostri giorni.
Per meglio capire l’origine delle diverse posizioni assunte dagli Stati Uniti in campo internazionale è dunque bene tornare al passato, ricordando anche il ruolo che hanno avuto gli eventi esterni nel condizionarne la genesi. Questa nazione è cresciuta e si è formata in un contesto internazionale che vedeva un numero di potenze europee perennemente in conflitto tra loro. Colonizzata da europei e nata perciò come estensione dell’Europa, non ne fu mai una replica ed in questo l’ambiente ebbe una parte molto importante.
Sin dagli inizi si è assistito ad un’espansione interna non solo geografica, ma anche economica, finanziaria, tecnologica, demografica e culturale. Ne è sorta una comunità capace di rinnovarsi continuamente e incline a volgere lo sguardo verso il futuro; una nazione plurima all’interno della quale ogni volta che una parte faceva un passo indietro, un’altra ne compiva uno avanti; una nazione che non ha mai attinto ad un’unica tradizione europea, ma a molte eredità diverse caratterizzate da una miscela di popoli, lingue e culture.
La sua Guerra di Indipendenza fu anche un conflitto civile ed è solo dopo la Guerra di Secessione che viene definito l’assetto economico e sociale del paese. Con la vittoria dell’Unione il Nord inaugurò il capitolo del “Destino Manifesto” in un contesto di crescente urbanizzazione, meccanizzazione, unificazione del Paese per mezzo della rete ferroviaria, produzione di massa ed afflusso di milioni di immigrati dall’Europa e dall’Asia.
In politica estera è con la guerra Ispano-Americana e l’acquisizione, a cavallo del Novecento, del canale di Panama che si passa da una fase tendenzialmente isolazionista all’imperialismo. A seguito del primo conflitto mondiale e del tramonto dell’Europa dopo il secondo, il XX secolo potrà dirsi “il secolo americano”.
Diceva Arthur Schlesinger che “per capire la condotta degli Stati Uniti all’estero bisogna conoscerne bene la storia”.
L’eredità puritana e i primi passi di una Nazione in attesa di nascere: Questa storia inizia con gruppi di coloni provenienti dall’Inghilterra che per sopravvivere devono lottare contro gli elementi e anche difendersi dalle tribù indiane, dai Francesi e gli Olandesi, che pure loro stavano mettendo piede sul continente. Per farvi fronte, nel 1643 quattro colonie inglesi decisero di unirsi creando la Confederazione della Nuova Inghilterra.
In un’ottica più ampia, tra il 1689 ed il 1763 gli Inglesi e i Francesi si trovarono coinvolti in quattro guerre successive: la guerra della Lega di Augusta, quella della successione Spagnola, della successione Austriaca ed infine quella dei Sette Anni. Le prime tre ebbero inizio in Europa e finirono poi con l’estendersi oltre Atlantico. Ogni grande guerra del periodo aveva infatti un suo parallelo al di là dell’oceano. Va anche ricordato che lo scontro tra Francia ed Inghilterra per la supremazia sul continente americano ebbe inizio molto presto.
Per i coloni americani queste erano tutte guerre straniere. A trasformarsi in un conflitto più vasto fu la guerra dei Sette Anni (1756-1763), che vide scontri in Europa, nel Mediterraneo, in India, nelle Antille e in territorio nord-americano. Alla fine di questa guerra l’Inghilterra ottenne il Canada e tutti quei possedimenti francesi che si trovavano ad oriente del fiume Mississippi. Dalla Corona spagnola, in cambio della restituzione di Cuba e delle Filippine, ricevette la Florida.
Tra le conseguenze di questa guerra, il raddoppio del debito dell’Inghilterra che presentò non pochi problemi, tanto che il re cercò di ottenere soldi dalle colonie, denaro che serviva però anche a difenderle.
Queste richieste suscitarono scontento tra i coloni, tanto che decisero di staccarsi dall’Inghilterra. Ne seguì un conflitto nel quale finì con l’inserirsi la Francia, trasformando così una guerra locale in uno scontro mondiale. Per Luigi XVI si trattava di un modo per capovolgere i risultati della guerra dei Sette Anni. Dopo la battaglia di Saratoga del 1777 riconobbe i ribelli, schierandosi ufficialmente al loro fianco. A seguito di questa sconfitta inglese, nel 1779 anche la Spagna decise di entrare in guerra come alleata della Francia. L’anno successivo, a questa coalizione contro l’Inghilterra si unirono Olandesi, Svedesi, Danesi e Russi.
Dopo la Dichiarazione di Indipendenza del 1776, “il ripudio dell’Europa – come scrisse John dos Passos – è dopo tutto la principale ragion d’essere dell’America”. Questa dichiarazione rappresentò infatti ben più di una semplice frattura con l’Inghilterra e con l’Europa: era soprattutto la volontà di smarcarsi da tutti quegli aspetti negativi che agli occhi dei coloni caratterizzavano l’Europa del XVIII secolo.
Trovatisi di fronte ad un continente ancora vergine, gli americani avrebbero avuto l’opportunità di edificare una nuova società e vivere in un mondo migliore. In poche parole, avrebbero potuto sganciarsi dalle dinamiche del Vecchio Continente per imbarcarsi in un esperimento nobilissimo e del tutto nuovo che non avrebbe avuto alcuna possibilità di realizzarsi se fossero rimasti coinvolti nelle beghe e nelle consuetudini dell’Europa.
Solo questo distacco avrebbe consentito la realizzazione di quel credo puritano che vedeva l’America come “la città sulla collina” e “l’ultima speranza di Dio sulla terra”. Questi concetti sono utili a spiegare l’idea dell’eccezionalismo americano che in seguito si sarebbe spesso manifestata nella politica degli Stati Uniti, così come l’atteggiamento isolazionistico che in origine non era che una scelta cosciente di evitare il coinvolgimento nelle faccende europee.
Come vedremo in seguito e queste righe ce lo spiegano, non si può definire la tradizione politica americana del XIX secolo in termini di semplice isolazionismo e limitarsi a questo.
Dalla Guerra di Indipendenza all’età dell’espansione: Questa guerra, che vide un manipolo di coloni inglesi schierarsi contro la madrepatria, fu la prima guerra di indipendenza dei tempi moderni che si concluse con lo spezzarsi dei vincoli imperiali. Ne emerse una nazione nuova fondata su un insieme di idee differenti da quelle europee, a volte anche opposte, che col tempo avrebbero portato all’affermarsi di una coscienza nazionale. Non a caso quest’esempio servì da modello ad altri popoli coloniali che successivamente lottarono per la loro libertà.
Alla fine del XVIII secolo gli Stati Uniti erano un paese piccolo, debole, abitato da poco più di tre milioni di abitanti. Di questi, la maggior parte viveva in aree rurali e solo il 3,3% risiedeva in centri urbani con ottomila o più abitanti. Circa metà della popolazione non aveva ancora raggiunto i 16 anni di età ed oltre la metà del suo territorio era in mano ad altri. La loro economia dipendeva soprattutto dall’Inghilterra ed i suoi ordinamenti politici lasciavano ancora a desiderare. Non avevano una marina e l’esercito contava 840 uomini.
Passati circa cent’anni questa nazione si era trasformata in un gigante: le sue dimensioni erano quelle di un continente, la sua popolazione era superiore a quella di qualsiasi altro paese europeo eccetto la Russia, la sua economia era la più produttiva del mondo ed il suo governo si era fatto forte, stabile e sufficientemente centralizzato.
Il momento di maggior crescita avvenne tra il 1877 ed il 1892: le industrie americane moltiplicarono per tre la loro produzione, tanto che nel 1890 gli Stati Uniti erano diventati il più grande paese produttore del mondo. Nello stesso anno la loro rete ferroviaria era più estesa di quella di tutto il continente europeo, Russia ed Inghilterra incluse. Fino al 1914 gli americani importavano capitali finanziando la loro crescita soprattutto grazie ad investimenti britannici ed europei. Dopo il 1918 gli Stati Uniti erano diventati esportatori di capitali.
Se da un lato le grandi nazioni europee rivaleggiavano nel mondo per lanciarsi alla conquista di possedimenti imperiali scatenando rivalità che sarebbero sfociate nel primo conflitto mondiale, gli Stati Uniti dal canto loro potevano costruirsi un impero in casa propria andando alla conquista dei territori d’Occidente, dagli Appalachi fino alle acque del Pacifico.
Nel 1803 il presidente Thomas Jefferson procedette con l’acquisizione della Louisiana. Il suo successore James Madison conquistò la Florida, la cui parte orientale fu successivamente acquisita sotto la presidenza Monroe con la minaccia dell’uso della forza. Tra il 1845 e il 1853 vi furono altre annessioni: quella del territorio dell’Oregon nel 1846, del Texas nel 1845, seguita da quella di vasti territori messicani nel 1848 e dall’acquisto Gadsden nel 1853. Questi vastissimi territori furono ben presto colonizzati, tanto che l’idea della frontiera continua ancora oggi a permeare lo spirito americano. I nativi furono spazzati via per essere sostituiti da una democrazia di matrice capitalista.
Rapporti con l’Europa dall’Indipendenza alla Rivoluzione Francese: Va sottolineato che fu l’Illuminismo alla fine del XVIII secolo ad avviare la democratizzazione degli Stati Uniti. Già prima del 1776, anno della Dichiarazione di Indipendenza, nella visione dei rapporti con l’estero appariva una vena tinta di idealismo e di pensiero utopico che evidenziava il distacco da tutto ciò che fosse europeo. Emergeva in parallelo anche una dimensione pragmatica fondata sul realismo commerciale dei mercanti del New England, che per motivi di scambi economici ritenevano importante conservare legami con l’Europa.
Alcuni anni dopo, in particolare tra il 1780 e il 1800, uomini come Thomas Jefferson ritenevano che nel passaggio da uno Stato coloniale ad una Repubblica gli Stati Uniti avrebbero potuto servire da modello per riformare quel sistema corrotto che gli americani consideravano tipico degli Stati europei. Si sarebbe trattato di una diplomazia nuova da costruirsi sui più alti ideali della nazione e della Repubblica né del tutto isolazionista, né semplice rifiuto dell’Europa. Era piuttosto di carattere riformista ed internazionalista ed avrebbe potuto condurre quest’ultima a lasciarsi alle spalle i suoi vecchi giochi diplomatici costruiti sui capricci e gli intrighi delle aristocrazie.
Va aggiunto che in quegli anni non era possibile per gli americani evitare un coinvolgimento e disinteressarsi sia agli sviluppi della Rivoluzione Francese che a quelli dell’era napoleonica: in quel periodo infatti tra Europa ed America i contatti e i rapporti furono numerosi e consistenti. Nel corso degli anni Novanta del XVIII secolo non furono pochi gli americani a schierarsi a favore o contro la Rivoluzione Francese. Lo scoppio di quest’ultima fu bene accolto almeno fino al momento dell’esecuzione del re Luigi XVI e al periodo del Terrore. Entrambi gli eventi divisero l’opinione pubblica americana.
Dopo 20 anni di servizio pubblico, alla fine del secondo mandato e poco prima di ritirarsi nella sua dimora a Mount Vernon, il presidente George Washington scrisse una lettera di commiato ad "amici e concittadini": il “Discorso di Addio” (Farewell Address). Ad ispirarla, il timore che i dibattiti sulla Francia e la sua Rivoluzione, spesso molto accesi, rappresentassero un pericolo per il progresso della nazione ed i suoi equilibri interni.
Dal tramonto della Rivoluzione Francese all’acquisto della Louisiana: Thomas Paine nel suo Common Sense (Senso Comune) pubblicato a Filadelfia nel Febbraio del 1776, anno della Dichiarazione d'Indipendenza Americana e ampliato dopo una prima edizione andata a ruba, aveva lanciato il suo appello per l’indipendenza ritenendo che Europa ed America fossero due entità separate e distinte che non dovevano essere collegate tra loro. Dopo il 1790 egli divenne però un convinto sostenitore dei Francesi, sottolineando come la loro lotta per la libertà fosse la stessa di quella americana.
A seguito dei conflitti che insanguinavano l’Europa, gli Stati Uniti riuscirono a barcamenarsi con successo tra Francia, Gran Bretagna e Spagna. Queste guerre avevano contribuito ad unire il paese e consolidarne il governo. Thomas Jefferson era dell’opinione che le milizie di Stato e qualche cannoniera fossero tutto ciò che poteva servire alla difesa di un Paese “separato dalla natura e da un vasto oceano dalla rovina sterminatrice dell’Europa”. Nonostante ciò, egli fondò nel 1802 l’accademia militare di West Point.
Solo dopo la Rivoluzione Francese ed il tentativo dei regimi monarchici di soffocare i movimenti rivoluzionari in Europa, gli americani iniziarono a pensare di avere una missione speciale da compiere: tenersi distanti dall’Europa della reazione e servire da rifugio per la libertà nel mondo. Il ripudio dell’Europa divenne dunque pienamente effettivo solo dopo il tramonto delle rivoluzioni democratiche nel continente e dei movimenti rivoluzionari liberali. Da qui un atteggiamento isolazionista negli affari internazionali.
Alexander Hamilton, che contribuì al Messaggio di Addio di Washington, partendo da una analisi pragmatica degli interessi del Paese riteneva che gli Stati Uniti dovessero esercitare una politica di potenza al solo scopo di privilegiare i propri interessi, evidenziando come questi dovessero limitarsi all’emisfero occidentale. Quando insisteva per una politica di distanziamento dell’Europa egli lo faceva perché voleva che gli americani fossero liberi di espandere i loro interessi nell’area a loro più prossima.
Emerso all’epoca dei Padri Fondatori, questo atteggiamento isolazionista nasceva da un processo di analisi ben diverso da come viene concepito oggi, tanto che è possibile dire che almeno fino alla prima metà del XIX secolo le caratteristiche dell’isolazionismo americano fossero in gran parte basate sulla prudenza, il realismo ed il senso di ciò che era possibile compiere.
Messi di fronte alle nazioni europee, gli Stati Uniti non erano che un paese debole, distante e con poco o nulla da guadagnare nel farsi trascinare nelle loro questioni politiche. Quest’isolazionismo aveva dunque connotati positivi in quanto garantiva libertà d’azione e impediva interventi esterni: lontana dal coinvolgimento in Europa, la giovane nazione si sarebbe trovata in una posizione migliore per delineare i suoi territori, espandersi verso Ovest ed avvantaggiarsi dei guai del Vecchio Continente.
Portare a termine quest’impresa significava anche popolare un continente vasto e ancora vuoto per forgiare una nazione da popoli di origini ed esperienze diverse. Il tenersi distanti dalle faccende europee non poteva che facilitare questo processo. Nelle parole di John Quincy Adams si trattava per gli Stati Uniti di essere “il campione ed il difensore” della sola indipendenza americana.
Nel 1800, in vista del rafforzamento del suo impero in Nord America, Napoleone aveva concluso con la Spagna un trattato per il ritorno della Louisiana alla Francia. Jefferson, che conosceva bene ed amava la Francia, temeva che ad una monarchia debole come quella spagnola si sarebbe potuto sostituire un regime imperiale ed aggressivo. A preoccuparlo ancora di più le sorti di New Orleans, porto dal quale usciva quasi la metà dei prodotti americani.
Jefferson inviò a Parigi James Monroe con l’incarico di offrire a Napoleone dieci milioni di dollari per l’acquisto di New Orleans e della Florida occidentale. Giunto in Francia egli si accorse che l’Imperatore aveva cancellato i suoi progetti sul Nuovo Mondo: un’epidemia di febbre gialla aveva ucciso vicino Haiti il generale Leclerc insieme a gran parte delle sue truppe, convincendolo a fare marcia indietro.
A sorpresa, Napoleone decise di offrire agli Americani non solo il porto di New Orleans, ma l’intera Louisiana. Monroe ed il rappresentante Robert Livingston si lanciarono sull’offerta e per circa 15 milioni di dollari conclusero l’affare: il 30 Aprile 1803 firmarono un trattato con la Francia grazie al quale gli Stati Uniti acquisirono oltre due milioni di chilometri quadrati di territorio, più che raddoppiando la loro estensione. Il Senato lo approvò a larga maggioranza e nel Dicembre dello stesso anno la Louisiana fu formalmente ceduta agli Stati Uniti.
Guerre Indiane, diritti di neutralità e la guerra del 1812: Nel 1803 erano anche riprese le ostilità tra Francia ed Inghilterra. Non potendo affrontarsi direttamente, queste due potenze cercarono altri modi per combattersi e decisero di nuocersi a vicenda riguardo gli scambi commerciali. Gli Stati Uniti, che si trovavano ad essere i principali trasportatori neutrali, finirono inevitabilmente col trovarsi coinvolti nella faccenda. Il presidente Jefferson era al suo secondo mandato e la questione della difesa dei diritti marittimi del suo paese lo preoccupava non poco.
Nel corso della loro rivalità, Francia ed Inghilterra non avevano rispettato i diritti di neutralità americani, tanto che dal 1803 al 1812 vennero sequestrati centinaia di mercantili. Nello stesso periodo vi furono numerosi episodi di arruolamento forzato da parte inglese che si conclusero con la cattura di alcune migliaia di marinai americani. Tutto ciò ferì l’orgoglio nazionale, fece infuriare Jefferson e colpì gravemente il traffico commerciale americano insieme ai suoi armatori, con il risultato che ne seguì una generalizzata depressione economica.
L’astio fu diretto in modo particolare contro gli Inglesi. Dopo alcuni tentativi diplomatici di scarso successo per porre rimedio alla situazione, nel Marzo del 1809 il Congresso votò il “Nonintercourse Act”, che però non era di facile applicazione. Nel Maggio dell’anno successivo venne adottato il “Macon’s Bill no.2”. Napoleone poco dopo revocò i suoi decreti nei confronti del commercio americano. Il neo eletto presidente Madison si affrettò a questo punto a ripristinare il “Nonintercourse Act” a danno degli inglesi.
Mentre erano in corso questi eventi, all’interno del Paese si susseguivano gli scontri con quelle tribù indiane che erano spesso in contatto con funzionari britannici.A seguito della firma del trattato di Greenville dell’Agosto 1795 gli Americani acquisirono la maggior parte di quei territori che più tardi sarebbero andati a formare lo Stato dell’Ohio. Dopo l’acquisizione della Louisiana gli Indiani del Nord Ovest, in seguito a minacce, episodi di corruzione e non pochi imbrogli, furono costretti a cedere migliaia di chilometri quadrati di territorio ad est del Mississippi. Alcuni anni dopo apparve sulla scena un grande capo indiano di nome Tecumseh. Questi era fermamente contrario ad ogni ulteriore perdita di territorio a vantaggio degli americani, così come era certo di poter fare affidamento sugli Inglesi.
Il governatore dell’Indiana William Henry Harrison riuscì a distruggere il quartier generale indiano nella battaglia di Tippecanoe del il 7 Novembre del 1811. Sul campo furono recuperati un certo numero di fucili di recente fabbricazione britannica. Di fronte a questa scoperta gli abitanti della frontiera si convinsero che sarebbero stati al sicuro solo dopo aver cacciato gli Inglesi dal Nord America. I coloni del Nord Ovest reclamarono quindi la conquista del Canada, mentre quelli della frontiera meridionale volevano impossessarsi della Florida a spese della Spagna. Tutti questi erano ferventi nazionalisti che, unendo i loro sforzi agli interessi degli armatori, gridavano di non potersi considerare figli di una nazione indipendente finché si fossero accettate passivamente interferenze nei loro commerci ed affari. Il loro capo era Henry Clay.
Salito alla presidenza della Camera dei Rappresentanti, insieme ad un gruppo di suoi amici sparsi nei vari comitati chiave, Clay decise di spingere gli Stati Uniti verso la guerra. Il presidente James Madison non era un guerrafondaio ma allo stesso tempo era scettico sulle possibilità di un mutamento della politica inglese. Per non vedersi escluso dalla nomina per le elezioni del 1812, egli inviò al Congresso una richiesta di guerra nella quale esponeva gli abusi commessi dagli Inglesi.
I motivi della guerra erano piuttosto chiari e questi alcuni stralci delle dichiarazioni di Madison al Congresso: “La condotta del governo di Sua Maestà presenta una serie di atti ostili agli Stati Uniti come nazione indipendente e neutrale….migliaia di cittadini americani sotto la tutela del diritto pubblico e della loro bandiera nazionale sono stati strappati al loro Paese…..Vascelli da guerra inglesi hanno preso l’abitudine di violare anche i diritti e la pace delle nostre coste”.
Il 18 Giugno 1812 il Congresso rispose con una dichiarazione di guerra che finì col rivelare una profonda frattura sia di carattere regionale che partitica nell’opinione pubblica americana. La maggioranza dei suoi componenti si era schierata con il presidente Madison a favore della guerra con l’Inghilterra. Si trattò di un voto di parte, in quanto molti dei Repubblicani si erano espressi a favore e ad opporsi invece tutti i deputati federalisti.
La speranza era quella di spingere la Corona inglese ad una risoluzione più favorevole di queste dispute marittime con inoltre la speranza di conquistare il Canada e spezzare la sua influenza in quelle parti del Paese dove si era alleata con le tribù indiane per infastidire i coloni americani e rendere loro più difficile l’espandersi sul continente.
Il paese era però impreparato alla guerra, le sue casse praticamente vuote e le Forze armate ridotte all’osso. Quello che agli americani sembrava a portata di mano era l’invasione del Canada, difeso al confine da non più di 4500 uomini e scarsamente abitato: contava non più di 500 mila abitanti e la sua lealtà all’Inghilterra era incerta. Due terzi della popolazione erano infatti di origine francese, un’altra parte composta da esuli della Rivoluzione Americana ed il resto da coloni inglesi. Impegnata a combattere Napoleone, l’Inghilterra non era in grado di inviare rinforzi.
Conclusa nel 1814 la guerra contro la Francia, Londra spedì 20 mila uomini di rinforzo in Canada e mise fine alle ambizioni americane. Anche sul mare gli Inglesi riuscirono ad avere la meglio e alla fine dell’estate un loro contingente era riuscito ad entrare a Washington e per rappresaglia a dar fuoco alla Casa Bianca, al Campidoglio e ad altri edifici pubblici.
Nella Nuova Inghilterra iniziarono a sorgere nel corso del conflitto dei fermenti secessionisti, tanto che nel Dicembre 1814 alcuni suoi delegati si riunirono ad Hartford per discutere una riforma del patto nazionale. Una volta giunti a Washington, i commissari inviati dalla Convenzione di Hartford erano convinti di poter dettare le loro condizioni ad un governo vicino a cadere quando improvvisamente giunse la notizia di una straordinaria vittoria a New Orleans e della firma di un trattato di pace. La guerra in Europa si era nel frattempo conclusa ed entrambe le parti decisero di porre termine ad un conflitto per loro inconcludente.
Impegnati a fondo nel combattere Napoleone, per gli Inglesi questa guerra fu cosa irritante ma di poca rilevanza. Lasciò invece negli Americani un senso di durevole ostilità verso Londra. Anche in questo caso gli Stati Uniti si erano mostrati non solo disposti, ma anche capaci di difendere i loro interessi contro quella che all’epoca era la maggiore potenza mondiale.
Questo episodio mise fine alla dipendenza della giovane nazione dalle vicende delle potenze europee. Sinora infatti non le era stato possibile evitare di farsi coinvolgere nei vari conflitti europei, tanto che le sue maggiori preoccupazioni erano state quelle della difesa e delle questioni internazionali. A partire dal 1815 ed in seguito al Congresso di Vienna l’Europa si trovò di fronte ad un lungo periodo di pace. Gli Stati Uniti riuscirono così a rifugiarsi in un isolamento diplomatico e a concentrarsi sulle loro faccende interne.
Come all’epoca della Guerra d’Indipendenza e del successivo periodo napoleonico, alla metà del XIX secolo gli Stati Uniti avevano un ruolo irrilevante negli affari del mondo. Lo svolgersi degli eventi non aveva fatto che riflettere il corso delle vicende europee dalle quali gli americani non potevano esimersi dal farne parte: l’Europa era al centro di tutto e le decisioni più importanti venivano prese soprattutto a Londra, Parigi, Vienna, Berlino e San Pietroburgo.
Ciò spiega perché gli Stati Uniti non emersero come potenza mondiale che alla fine della guerra con la Spagna, combattuta dall’Aprile al Dicembre del 1898.
Per essere considerata grande potenza una nazione ha inizialmente bisogno che da parte del governo e del popolo vi sia la volontà di influenzare gli eventi mondiali e non limitarsi al solo ruolo di osservatore marginale e passivo. E’ anche necessario che nel formulare la loro azione diplomatica le altre potenze prendano in considerazione gli indirizzi politici di questa nazione. Riguardo quest’ultimo aspetto, le potenze europee avevano raramente tenuto conto degli Stati Uniti almeno fino all’ultima decade del XIX secolo. Se lo avevano fatto, lo si doveva più alla crescita economica e politica che alla forza della loro diplomazia.
Per gran parte del secolo, la maggioranza degli americani era del tutto indifferente alle questioni di politica estera: a preoccuparli ed assorbire la loro attenzione erano i problemi interni. Di ciò che avveniva altrove a loro interessava poco, al punto che nutrivano sospetti nei confronti dei diplomatici e dei loro modi visti come ambigui ed ingannevoli. Avevano grande fiducia nell’autosufficienza della loro nazione e pensavano che potesse cavarsela nel mondo da sola.
Questo sentimento, meglio noto con il termine di isolazionismo, si fondava sulla convinzione che quella americana era una società autosufficiente e che doveva anche tenersi alla larga da quelli che allora erano noti come “coinvolgimenti esterni”.
Il sentimento isolazionista e le sue origini: Per meglio capire questo modo di vedere le cose sarebbe il caso di chiedersi come l’isolazionismo abbia assunto una posizione dominante nella politica estera americana del XIX secolo, perché gli Stati Uniti non abbiano giocato un vero e proprio ruolo negli affari mondiali e quali furono le conseguenze e le implicazioni di questo isolazionismo.
A spiegarlo, quattro i motivi principali:
1) Geograficamente distanti dall’Europa, nel corso del secolo gli Stati Uniti avevano potuto beneficiare di un forte senso di sicurezza. Il livello di tecnologia navale e militare dell’epoca era tale da far si che l’Atlantico formasse una vera e propria barriera, tanto che gli americani ritenessero garantita la loro sicurezza nazionale. Di ciò era convinto anche il presidente Lincoln: era sua opinione che gli Stati Uniti fossero al sicuro al di là delle loro barriere oceaniche indipendentemente da quel che avrebbero fatto le altre nazioni e che sarebbe potuto accadere altrove nel mondo.
2) Gli Stati Uniti avevano di fronte un vasto territorio inesplorato da colonizzare e sviluppare. Per anni infatti il movimento verso Occidente aveva non solo assorbito gran parte dell’attenzione e delle energie nazionali, ma aveva anche concentrato verso l’interno l’interesse degli americani. Questo ideale della frontiera aveva contribuito a creare una tradizione continentale che avrebbe più tardi avuto una risonanza sull’evoluzione dei loro rapporti internazionali. Si trattava di una situazione diversa da quella esistente nel XVIII secolo: l’America consisteva allora unicamente di 13 colonie affacciate sulla costa atlantica e quindi volte in direzione dell’Europa. L’espansione verso Ovest avrebbe coinvolto gli Stati Uniti in dispute e contrasti col vicino Messico, con la Spagna e soprattutto con l’Inghilterra.
3) Nel corso del XIX secolo gli Stati Uniti crebbero e si forgiarono come nazione. In quegli anni infatti gli americani svilupparono quelle che possono definirsi delle posizioni politiche di carattere nazionale. Si trattò di un periodo particolare perché ad eccezione degli anni tra il 1850 ed il 1870 non vi furono in Europa conflitti di rilievo, ma solo guerre brevi e decisive che non coinvolsero direttamente le grandi potenze e non superarono i confini del continente. Preceduti da un periodo di forti tensioni, gli anni tra il 1861 ed il 1865 videro invece gli stessi Stati Uniti coinvolti in un conflitto civile sanguinosissimo che rischiò di minarne l’esistenza.
L’Europa della Restaurazione si caratterizzò per il raggiungimento di un’efficace equilibrio di potere che impedì a qualsiasi nazione di turbarlo poiché sarebbe stata subito fermata dai rivali. Qualche tensione sorse dai moti rivoluzionari del 1848 ed in seguito dalla rapida ascesa della Prussia. Dopo il 1871 il cancelliere prussiano Bismarck, che nel frattempo aveva sconfitto la Francia di Napoleone III e messo fine al suo impero, si adoperò per ristabilire e poi mantenere un nuovo equilibrio di potere in Europa.
Questa situazione favorì gli Stati Uniti consentendo loro di svilupparsi come meglio volevano senza doversi preoccupare di eventuali interferenze esterne: dietro la stabilità di questi anni gli americani furono liberi di espandersi verso Occidente e concentrarsi sulle loro questioni interne.
4) In questo furono essenziali il ruolo dell’Inghilterra e della sua marina militare. La flotta inglese serviva infatti a conservare gli equilibri in Europa e allo stesso tempo proteggere gli Stati Uniti da eventuali intrusioni. Londra era al massimo della sua influenza e con la sua potente flotta era la sola nazione europea in grado di minacciare gli Stati Uniti: a ricordarcelo la guerra del 1812 e l’incendio di Washington.
Dopo la caduta di Napoleone, l’Inghilterra poteva dirsi nazione amica degli Stati Uniti o alla peggio neutrale nei loro confronti: era da tempo giunta alla conclusione che un’America indipendente e libera avrebbe meglio servito i suoi interessi economici e commerciali. Si trattava infatti di un mercato nel quale investire e vendere i prodotti delle sue manifatture.
Questi punti appena menzionati sono basilari per comprendere l’evoluzione della politica estera degli Stati Uniti e del loro cosiddetto isolazionismo. Consentirono loro di farsi un’idea del mondo in un periodo nel quale si sentirono liberi da pressioni o manovre provenienti dall’altro lato dell’Atlantico. Ciò fece sì che potessero credere nella pace e nel progresso, convincersi che il domani sarebbe stato migliore dell’oggi e che questo sarebbe stato l’ordine permanente delle cose.
Quel che gli americani avevano però dimenticato era di essersi sempre trovati coinvolti in tutte le turbolenze e le guerre che avevano caratterizzato il XVII e XVIII secolo.
Storia di una dottrina: Le elezioni del 1816 videro i Repubblicani accordarsi sulla figura di James Monroe. In quelle successive del 1820 quest’ultimo venne facilmente rieletto per via della scomparsa del Partito Federalista.
In materia di politica estera Monroe poteva ritenersi un acceso nazionalista. Suo Segretario di Stato fu John Quincy Adams, di convinte idee espansioniste che per via del padre si era costruito una solida esperienza in fatto di questioni internazionali. Ai suoi occhi era la provvidenza stessa a dettare che gli Stati Uniti dovessero diventare i padroni di tutto il continente nordamericano: forte della sua posizione, egli decise di fare della diplomazia uno strumento per raggiungere questo scopo.
Nel corso dell’occupazione napoleonica della Spagna, un certo numero di coloni di discendenza spagnola colsero l’occasione per ribellarsi alla Corona, gesto che avrebbe successivamente portato alle guerre di indipendenza nei territori dell’America Latina ed in parte in quelli del Nord.
Uomini come Simon Bolivar, da tempo ostili al giogo coloniale spagnolo ed influenzati sia dall’esempio della guerra di Indipendenza americana che dalla Rivoluzione Francese, erano riusciti a creare, anche se solo temporaneamente, degli Stati indipendenti. A seguito di alcuni rovesci, questi movimenti indipendentisti stavano riprendendo vigore negli anni successivi al 1816. Sopprimere le rivolte nei territori d’America e restaurare il potere assoluto in casa divennero i principali obbiettivi del Re di Spagna.
Tornando al Segretario di Stato Adams, all’inizio del suo mandato usò il suo talento per comporre alcune vertenze con l’Inghilterra. Egli ottenne poi un importante successo per l’acquisizione delle due Floride: gran parte della colonia era sotto il dominio di Madrid, ma questa non era forte abbastanza per governarla come dovuto.
Per affrontare il problema Washington incaricò il generale Andrew Jackson di andarvi a mettere ordine. Il suo comportamento sul campo suscitò non poca indignazione, al punto che furono molte le proteste sul suo modo di condurre le operazioni. Adams persuase il presidente Monroe a non sanzionarlo e neppure a ritirargli il suo appoggio. In difesa di questa decisione disse semplicemente che se la Spagna non era in grado di governare a dovere la Florida, sarebbe stato meglio la cedesse agli Stati Uniti.
Il governo spagnolo, che doveva anche vedersela con una serie di rivolte nelle sue colonie in Sudamerica, non potè che cedere e nel 1819 entrambe le Floride passarono agli Stati Uniti a seguito del trattato Adams-Onìs. Quest’ultimo servì anche a definire il confine tra il Messico spagnolo e i territori della Louisiana recentemente acquistati da Washington. La Spagna avrebbe anche rinunciato alle sue pretese sull’Oregon e gli americani alle loro sul Texas.
Nel 1822 il presidente Monroe, lasciatasi alle spalle la questione delle Floride, decise di riconoscere i nuovi governi sorti dalle rivolte sudamericane. Nel frattempo in Europa Austria, Francia, Russia e Prussia avevano costituito la cosiddetta “Santa Alleanza”, che mirava a sostenere i regimi monarchici e reprimere le forze del liberalismo. Una serie di tumulti nel vicino Oriente iniziarono a preoccupare il cancelliere austriaco Metternich, tanto che nel 1822 si aprì un congresso a Verona il cui scopo era conservare l’ordine vigente in Europa.
Lo zar Alessandro fece pressioni sul congresso affinché fosse svolta un’opera di mediazione tra la Spagna e le sue colonie in rivolta. Si trattava di un modo elegante per suggerire un intervento militare nell’America spagnola sulla scia del precedente protocollo di Troppau, che stabiliva un principio di sicurezza collettiva di fronte ai moti rivoluzionari. Tra il 1821 ed il 1823 la Santa Alleanza soffocò i moti in Italia e Spagna. Girarono anche voci che intendesse appoggiare Madrid in un tentativo di riprendersi il suo impero in Sudamerica.
Queste voci rimbalzarono a Washington e crearono in alcuni ambienti non poco allarme: non si trattava solo di questioni di sicurezza ma da parte americana anche del desiderio di esportare il proprio sistema di istituzioni repubblicane. Ad aggravare i timori, un editto russo che mirava ad allargare verso Sud i confini dell’Alaska considerando anche l’eventualità di colonizzare la costa occidentale del Nord America. Quest’insieme di notizie spinsero il presidente Monroe e il suo Segretario di Stato ad manifestare apertamente l’opposizione degli Stati Uniti ad interventi europei nel continente.
Anche gli Inglesi, che nel corso delle guerre napoleoniche avevano incrementato enormemente le loro esportazioni in America Latina ed intendevano conservare questi vantaggi, ebbero da ridire. Non erano contrari dal loro punto di vista a vedere l’impero Spagnolo smembrato in Stati indipendenti, con i quali avrebbero poi avuto l’opportunità di negoziare dei trattati di libero scambio. Erano dunque contrari a vedere restaurato il dominio spagnolo in quelle ex-colonie.
Alle potenze europee fu chiaro che senza la benevola neutralità di Londra nessuna spedizione armata poteva attraversare l’oceano. Le colonie spagnole d’America, soprattutto per l’uso che l’Inghilterra stava in quel momento facendo della sua forza navale, riuscirono così a conservare la loro indipendenza. Ricevuta dalla Francia l’assicurazione che nulla avrebbe fatto per aiutare gli Spagnoli a riprendersi le loro colonie americane, il Segretario di Stato inglese per gli Affari Esteri George Canning si fece avanti nell’Agosto del 1823 per chiedere l’appoggio americano contro ogni intervento europeo sotto forma di una protesta congiunta. Era infatti sua intenzione contrastare la Santa Alleanza e persuadere le potenze europee che Inglesi e Americani stessero operando insieme.
Il presidente Monroe all’inizio accolse con favore quest’offerta e lo stesso fecero Jefferson e Madison, malgrado la loro contrarietà ad assumere impegni verso l’estero. A non essere d’accordo era John Quincy Adams: era sua opinione che l’Inghilterra si sarebbe in ogni caso opposta ad eventuali interventi europei. Tanto valeva allora che gli Stati Uniti agissero per conto proprio piuttosto che “intervenire come una piccola imbarcazione sulla scia della grande nave da guerra britannica”.
Nel messaggio annuale al Congresso del 2 Dicembre 1823, il presidente Monroe emanò una dichiarazione di impronta nazionalista. Non era altro che una indicazione sulla politica che avrebbero seguito gli Stati Uniti nei confronti dei nuovi Stati indipendenti dell’America Latina. Si trattava di quella che sarebbe stata poi nota come la “dottrina Monroe”.
Vi si avvisavano le potenze europee di astenersi da ulteriori tentativi di colonizzazione che sarebbero stati visti come atto di inimicizia verso gli Stati Uniti: agli Europei di tenersi lontani dal continente americano, così che gli Stati Uniti non sarebbero intervenuti nelle loro faccende e non si sarebbero immischiati nelle questioni delle loro colonie americane.
A farla breve, ogni tentativo delle potenze europee di interferire nelle vecchie colonie dell’emisfero occidentale non sarebbe stato tollerato dagli Stati Uniti: le Americhe “d’ora in poi non sono più da considerarsi come oggetto di ulteriore colonizzazione da parte di qualsiasi potenza europea”. Come egli avrebbe detto in seguito riguardo il suo Paese: “Ovunque sia stato o sarà sventolato lo stendardo della libertà e dell'indipendenza, lì saranno il suo cuore, le sue benedizioni e le sue preghiere. Non va all'estero alla ricerca di mostri da combattere, è il benefattore della libertà e dell'indipendenza di tutti, il paladino ed il vendicatore solo dei suoi”.
Questa dottrina, che per la sua efficacia si affidava alla supremazia navale inglese, passò quasi inosservata e non ebbe effetti immediati per una generazione. A tenere a bada le potenze della Santa Alleanza non furono tanto le parole di Monroe, quanto i cannoni delle navi da guerra della flotta britannica, di fatto la sola in grado di minacciare l’indipendenza degli Stati americani.
In un’ottica più vasta, questa dichiarazione emergeva come una sorta di contraltare a quella espressa da Metternich nel protocollo di Troppau che sanciva il principio di intervento contro le rivoluzioni. A questo principio Monroe sostituiva l’idea che se i regimi rivoluzionari in America Latina fossero riconosciuti dal popolo erano da ritenersi legittimi e quindi non dovevano riguardare le potenze europee.
Nessuna delle potenze europee vi prestò molta attenzione. Fu lo stesso zar Alessandro a dire “che il documento meritava solo il più profondo disprezzo”. Gli americani stessi non la presero molto sul serio: i loro interessi in America Latina erano minimi ed una volta sfumata l’idea di una minaccia europea, le loro preoccupazioni semplicemente svanirono. Questa dottrina servì agli Americani per evidenziare l’avversione al dispotismo ed in America Latina a marcare la contrarietà al predominio degli Stati Uniti.
Il compromesso del Missouri: Benché questa vicenda non abbia nulla a che vedere con le questioni internazionali, va comunque menzionata perché avrebbe avuto un ruolo nelle faccende che portarono alla Guerra Civile. Il 3 Marzo del 1820 il Congresso approvò una misura nota come il “Compromesso del Missouri”. Si trattava di una risposta al problema dell’ammissione del Missouri nell’Unione in quanto Stato schiavista. All’epoca in seno all’Unione vi erano 11 Stati schiavisti ed 11 Stati cosiddetti liberisti. L’ingresso del Missouri avrebbe alterato gli equilibri di potere all’interno del Senato e riaperto la contesa sulla schiavitù tra gli Stati del Nord e quelli del Sud.
Per uscire dallo stallo, intervenne l’ammissione del Maine come Stato libero in seguito alla separazione dal Massachusetts. Dopo una serie di manovre il Missouri fu ammesso nell’Unione come Stato nel quale la schiavitù era legale. La condizione era però che quest’ultima non fosse praticata nel resto del territorio della Louisiana del quale il Missouri era parte. Vi entrò ufficialmente nel 1821. La crisi era però latente: le controversie sullo schiavismo non sembravano dissiparsi, tanto che Thomas Jefferson ebbe da dire che “questa grave questione, come un avviso di incendio nella notte, mi ha svegliato e riempito di terrore”. Forse più pessimista, Adams scrisse nel suo diario “l’attuale questione è semplicemente un preambolo, la prima pagina di un grande, tragico volume”.
La soluzione resse fino al 1854 quando entrò in vigore il Kansas-Nebraska Act che affermava la dottrina della sovranità popolare sulla questione dello schiavismo. Quest’atto contribuì alla nascita del Partito Repubblicano e a trascinare il Paese verso la Guerra Civile.
Gli anni successivi alla dottrina di Monroe: L’efficacia di questa dottrina dipendeva dalla tacita cooperazione della forza navale inglese. L’interesse di Londra era quello di tenersi distante dal sistema di potere europeo sancito dalla Santa Alleanza per conservare la sua libertà di azione in politica estera. Ciò significava esercitare la sua supremazia marittima, considerare con benevolenza le rivoluzioni in altri paesi e favorire gli scambi commerciali allontanando le influenze europee dagli ex-possedimenti spagnoli d’America.
Nel 1824 e l’anno successivo, un certo numero di paesi dell’America Latina cercarono di vedere se il Dipartimento di Stato fosse interessato ad impegnarsi con loro sulla base della dottrina Monroe. In particolare la Colombia, preoccupata dall’eventualità di un intervento francese, si rivolse a Washington sottolineando che per via di questa dottrina gli Stati Uniti dovevano impegnarsi a venirle in aiuto.
Adams rispose che non vedeva alcuna minaccia francese e che né lui né il presidente potevano coinvolgere gli Stati Uniti senza l’approvazione del Congresso: un modo elegante per evitare la questione e far capire che nessuno avrebbe mosso un dito. Fu così che i paesi dell’America Latina iniziarono a pensare che in caso di necessità era meglio rivolgersi a Londra piuttosto che a Washington. Gli Inglesi di conseguenza si guadagnarono il merito di salvatori dell’indipendenza latina.
Nel corso degli anni Trenta la dottrina non apparve in nessun giornale americano e venne menzionata dal Congresso una sola volta. Nel 1833 gli Inglesi occuparono le isole Malvine e organizzarono tre nuove iniziative coloniali nell’America Centrale. Cinque anni dopo la Francia istituì un blocco ai danni del Messico e dell’Argentina, per intervenire successivamente nelle sue faccende interne. A riprova dell’assenza di interesse nella regione e del fatto che al momento la dottrina di Monroe non significava nulla per gli americani, da parte di Washington non vi fu nessuna reazione.
Nel corso di qualche anno dopo questa dottrina fu resuscitata in quanto poteva essere utile alla causa del nazionalismo americano e dell’espansione verso Ovest come strumento del Destino Manifesto (Manifest Destiny): la convinzione che gli Stati Uniti avessero la missione di espandersi per diffondere il loro modello di libertà e democrazia. I sostenitori di questa teoria, coniata nel 1845, pensavano che questa espansione fosse non solo un bene ma anche evidente ed inevitabile.
Questa teoria presupponeva una volontà della Provvidenza ad attribuire agli Stati Uniti il controllo dell’intero continente nordamericano. Essa conteneva in sé anche elementi idealistici conditi da una vena di romanticismo, in quanto esprimeva la convinzione che il modo migliore per promuovere la libertà consistesse nell’ampliare i territori americani.
Convinzioni simili si diffusero rapidamente per diventare un elemento trainante dell’azione politica che portò all’annessione del Texas, al contrasto con l’Inghilterra sull’Oregon ed infine all’acquisizione della California, del Nuovo Messico e dello Utah. E’ interessante notare quanto queste idee fossero simili a quelle adottate più tardi dalle grandi potenze europee per giustificare le loro politiche imperialiste.
A partire dal 1850 la dottrina Monroe fu accolta con più favore dall’opinione pubblica. E’ infatti in quel periodo che viene descritta come la Dottrina Monroe con la D maiuscola. Il termine “dottrina” non fu mai usato pubblicamente fino a quel momento: in precedenza ad essere utilizzate erano i termini “messaggio” o “princìpi”.
Gli attriti con il Messico ed il problema del Texas: Dal punto di vista delle nuove repubbliche dell’America Latina la dottrina Monroe, anche se non presa sul serio come appena visto, non venne accolta con favore: se è vero che da un lato le tutelava dalle ambizioni europee, dall’altro le esponeva a quelle americane e fu proprio dagli Stati Uniti che una di queste fu costretta a subire le prime minacce esterne.
All’interno degli Stati Uniti la dissoluzione dell’impero Spagnolo nel corso del primo quarto del XIX secolo lasciò vasti territori quasi disabitati ed in stato di disordine che si estendevano pressappoco dal Colorado fino a Capo Horn. Quando il Messico ottenne l’indipendenza dalla Spagna il suo territorio arrivava quasi sino alle rive del Mississippi ed alla catena delle Montagne Rocciose.
In quello stesso periodo i coloni americani pensavano che lo spazio delle Grandi Pianure non fosse adatto allo sfruttamento agricolo. Rivolsero quindi lo sguardo a quelle ampie estensioni di terreni fertili ed incolti alla frontiera con il Messico. I primi coloni iniziarono a spostarsi verso il Texas a seguito di un invito ricevuto dal Messico. Ottenuta la sua indipendenza, quest’ultimo aveva offerto ampie concessioni territoriali agli Americani purché avessero accettato la sua giurisdizione e si fossero installati in insediamenti non superiori ad un certo numero di abitanti.
Nel 1830 su queste terre si erano già stabiliti circa 20 mila coloni, quasi tutti provenienti dagli Stati del Sud. Si erano portati appresso i loro schiavi per coltivarvi il cotone, bene molto richiesto dall’industria britannica. L’anno precedente il governo messicano aveva abolito la schiavitù e cominciava anche ad allarmarsi per il numero dei coloni che entravano nei suoi territori. Vietò l’immigrazione e tentò di applicare le proprie leggi contro lo schiavismo. Gli attriti furono inevitabili.
Senza troppi scrupoli, questi si ribellarono e all’inizio del 1836 proclamarono una loro repubblica che chiamarono Texas chiedendone successivamente l’annessione agli Stati Uniti: il Messico non gradì la cosa e a non gradirla furono anche gli Stati del Nord. L’annessione di questi territori avrebbe potuto infatti rafforzare la causa dello schiavismo ed accrescere il peso del Sud.
Washington considerò questa richiesta come foriera di problemi. Il presidente Jackson preferì accantonare la questione e lo stesso fece il suo successore Martin Van Buren. Scontenti per questi rinvii ed in astio agli Stati Uniti, i texani volsero lo sguardo alla Francia e alla Gran Bretagna. Un Texas indipendente avrebbe fatto comodo soprattutto agli Inglesi: avrebbe messo un bastone tra le ruote all’espansionismo americano e offerto un mercato alle sue esportazioni rendendo le sue industrie meno dipendenti dal cotone americano.
Quest’interesse dell’Inghilterra per il Texas non piacque a Washington, tanto che il presidente John Tyler ed il suo Segretario di Stato Abel Upshur, favorevoli entrambi ad una politica di espansionismo, ripresero le trattative nell’autunno del 1843. Contrari al Compromesso del Missouri, erano dei conservatori che credevano nei diritti degli Stati e nella limitazione del potere federale.
Queste trattative continuarono con l’arrivo del nuovo Segretario John Calhoun a seguito della morte del suo predecessore. Anche lui era un espansionista ed un difensore degli interessi del Sud. Con 35 voti contrari e 16 favorevoli la proposta di annessione naufragò poco dopo in Senato: l’ingresso del Texas nell’Unione quale stato schiavista avrebbe potuto infrangere gli equilibri in quanto stava riesplodendo la questione dello schiavismo.
La guerra con il Messico: Mentre si svolgevano questi fatti, dei coloni americani posarono lo sguardo su altri due territori scarsamente popolati appartenenti anche loro al Messico: la California ed il Nuovo Messico. Tra il 1830 ed il 1840 vi si stabilirono un certo numero di commercianti, presto seguiti da una prima ondata di coloni. Nel 1845 se ne contavano circa 700 che già pensavano a rendersi indipendenti dal Messico per far parte degli Stati Uniti. In quel frangente, sia il presidente Tyler che il governatore del Tennessee James Knox Polk temevano che Londra avrebbe potuto estendere le sue mire anche alle coste del Pacifico.
Poco prima della scadenza del suo mandato, il presidente Tyler, nel Novembre del 1844, suggerì che il Congresso realizzasse l’annessione del Texas con una risoluzione congiunta delle Camere: l’espediente avrebbe richiesto una maggioranza semplice piuttosto che quella di due terzi richiesta al Senato per la ratifica di un trattato. Una volta approvata, Tyler la firmò a due giorni dalla fine del suo mandato il 10 Marzo 1845. In risposta, Londra tentò di persuadere il Texas a mantenere la sua indipendenza ma questi votò l’annessione ed entrò nell’Unione come Stato unico nel Dicembre 1845.
Il 4 Marzo del 1845 Polk fece il suo ingresso alla Casa Bianca per rimanervi fino al 1849. Era un Democratico che in politica estera si era impegnato nel corso della sua campagna elettorale ad espandere la nazione secondo la teoria del Destino Manifesto. Primo punto del suo programma era l’annessione del Texas, avvenuta però poco prima che egli entrasse in carica. Il secondo era l’allargamento dei confini del territorio dell’Oregon ed il terzo l’acquisizione della California dal Messico.
All’inizio del XIX secolo, Russia, Gran Bretagna Francia e Spagna avevano tutte avanzato pretese sul quell’insieme di territori che dalla California arrivavano all’Alaska e dalle Montagne Rocciose fino al Pacifico. Entro breve tempo la vertenza finì col ridursi ad una disputa tra Stati Uniti ed Inghilterra che si concluse in un accordo che lasciava questi spazi aperti ad entrambi.
L’interesse americano per questi territori si riaccese dal 1840, tanto che alla fine del 1845, dopo aver instaurato un governo provvisorio, i coloni americani chiesero di ottenere l’esclusiva giurisdizione dagli Stati Uniti. Facendo riferimento alla dottrina Monroe, il presidente Polk informò il Congresso che non avrebbe consentito sul continente americano la presenza di colonie europee. Queste le sue parole, il cui senso non poteva essere più evidente: “E’ nostra politica dichiarata che nessun altra colonia o dominio europeo possa essere stabilita in qualsiasi parte del continente americano”. Era un avviso a chiunque di tenersi lontani da quei territori che intendeva annettere al paese. Sottolineò anche come palese ed inequivocabile il diritto degli Stati Uniti sull’Oregon, diritto che se necessario avrebbe difeso fino in fondo.
A Londra questa dichiarazione fece poco effetto. Accadde però che le relazioni tra Washington ed il Messico finirono col deteriorarsi rapidamente. Dal canto suo l’Inghilterra aveva trasferito sull’isola di Vancouver la sede della compagnia della Baia di Hudson. A questo punto, a nessuna delle due parti conveniva più iniziare una diatriba sui confini tra i rispettivi territori: fu presto raggiunto un compromesso ed il confine tra Stati Uniti e Canada venne stabilito al 49° parallelo.
Il trattato dell’Oregon fu ratificato dal Senato il 18 Giugno del 1846. Per via del clima e della natura del terreno, questi entrò a far parte dell’Unione come Stato libero. I Democratici dell’Ovest, che ai termini di questo compromesso erano contrari, si sentirono traditi e ne sarebbe presto nata una frattura all’interno del Partito.
Dopo un periodo di attriti e risentimenti tra coloni americani e autorità messicane, al momento dell’annessione del Texas il Messico ruppe le relazioni con gli Stati Uniti. La stampa locale iniziò a premere per una guerra. Nell’estate del 1845, il presidente Polk, che non poteva non appoggiare le pretese del Texas sui confini tra i due paesi e che poco prima aveva tentato invano di acquistare la California, ordinò al generale Taylor di entrare nell’area contesa. A seguito di questa guerra il Messico perse anche i suoi territori del Nord-Ovest.
Il 2 Febbraio 1848 con il trattato di Guadalupe Hidalgo il Messico cedette agli Stati Uniti i territori della California e del Nuovo Messico e la nuova frontiera tra i due Paesi fu stabilita dal corso del fiume Rio Grande. Entrambi saranno ammessi nell’Unione come Stati liberisti. Questa fu la prima guerra nella quale un presidente degli Stati Uniti agì da Comandante in capo delle Forze armate come indicato dalla Costituzione.
All’epoca i più ferventi espansionisti provenivano dai ranghi del Partito Democratico ed erano originari degli Stati del Sud. Come vedremo più avanti, chi si era opposto alle posizioni del presidente Polk riteneva che avessero come scopo quello di favorire gli interessi del Sud e dei latifondisti proprietari di schiavi.
Continuano le tensioni tra Nord e Sud: Con l’avanzare del tempo le dispute sullo schiavismo andavano aumentando, il Texas pretendeva una parte del Nuovo Messico e nel 1848 fu scoperto dell’oro nella valle del Sacramento. L’anno successivo la California fu invasa da circa 80 mila cercatori d’oro ed inoltre promulgò una Costituzione che vietava lo schiavismo per poi entrare nell’Unione come Stato nel 1850. Pochi mesi dopo altrettanto fece il Nuovo Messico.
L’ammissione di questi due Stati come liberisti creò delle preoccupazioni al Sud, in quanto avrebbe potuto modificare l’equilibrio regionale nel Senato: all’epoca infatti gli Stati liberisti e quelli schiavisti erano in numero pari, 15 per parte. Con l’ammissione della California come Stato liberista, il Sud che era già in netta minoranza alla Camera perse la parità di rappresentanza in Senato.
Negli Stati del Sud, soprattutto nella Carolina del Sud e nel Mississippi, dove la popolazione di colore era la maggioranza, si andava sviluppando un inquietante movimento secessionista. Di fronte a questo pericolo per l’Unione il 31° Congresso si adoperò alla ricerca di un compromesso. A sbloccare la situazione giunse l’improvvisa morte del presidente Taylor nel Luglio del 1850. A metà Settembre il cosiddetto Compromesso del 1850, raggiunto per far rispettare la legge sugli schiavi fuggitivi, era stato approvato: nessuna delle parti era pienamente soddisfatta ed i più radicali tra i Sudisti si convinsero che non vi fosse futuro all’interno dell’Unione.
Le crescenti differenze tra Nord e Sud stavano creando e rafforzando in quest’ultimo un senso di unità, accompagnato da un sentimento di diversità rispetto al resto del paese.
Le presidenziali del 1852 aprirono le porte della Casa Bianca a Franklin Pierce. Egli sapeva che gli americani erano soprattutto interessati a porre fine alle contese interne. Per distogliere lo sguardo dalla questione schiavista e dalle complicazioni che ne seguivano, il nuovo presidente pensò che non vi sarebbe stata cosa migliore che lanciarsi in una politica estera espansionista. Intendeva in questo modo concedersi quello spazio di manovra che gli mancava nel paese. A Cuba lo schiavismo ancora esisteva ed egli pensò bene di appropriarsene.
Quest’isola era l’ultimo lembo rimasto dell’Impero Spagnolo nel continente americano e si trovava in un’importante posizione strategica. Provenienti soprattutto dagli Stati del Sud, alcuni reduci della guerra messicana organizzarono spedizioni con l’intento di occuparla. I cubani però non si sollevarono e la loro delusione fu grande. Nel 1854 il Segretario di Stato William Marcy incaricò il rappresentante americano a Madrid di offrire 130 milioni di dollari per l’acquisto di Cuba.
Era sottinteso che se l’offerta fosse stata respinta sarebbe stato possibile usare altre vie per sottrarla al dominio spagnolo. Da queste manovre ne uscì il cosiddetto “Manifesto di Ostenda” che però finì in mano alla stampa. Gli ambienti anti-schiavisti del Nord ne furono indignati, tanto che Marcy dovette smentire tutto e naufragò così il tentativo di annettere Cuba. La mancata acquisizione di un territorio nel quale si praticava ancora lo schiavismo fu per il Sud una grande delusione.
Il Kansas-Nebraska Act e successive tensioni sociali: Nel 1854 il Congresso aveva in mente la costruzione di una ferrovia transcontinentale verso il Pacifico. Era desiderio del senatore dell'Illinois Stephen Douglas che passasse per Chicago. I Sudisti volevano invece che passasse dalla California, attraversando il Texas per poi toccare New Orleans. Le parti giunsero ad un compromesso e presentarono il Kansas-Nebraska Act: in cambio del passaggio della ferrovia per Chicago vennero creati due nuovi Stati in quei territori dove sarebbe transitata: il Kansas ed il Nebraska, divisi dal 40° parallelo.
Si trattava a questo punto di decidere se consentirvi o meno lo schiavismo. Due erano le possibilità:
1) applicare il Compromesso del Missouri del 1820, che vietava la schiavitù al di sopra del 36°30' parallelo e perciò anche in questi due territori. A questa ipotesi erano favorevoli gli Stati del Nord;
2) applicare un sistema analogo a quello definito nel compromesso del 1850, grazie al quale California e Nuovo Messico erano stati ammessi nell'Unione. La questione dello schiavismo sarebbe stata poi affidata ad un voto popolare all'interno dello Stato stesso. Questa era la soluzione più gradita agli Stati del Sud.
A prevalere fu questa ipotesi, il cui costo politico si sarebbe però rivelato altissimo. Con l’annullamento del compromesso del Missouri, nel quale si era tentato di venire incontro alle aspirazioni del Sud senza danneggiare quelle del Nord, si verificò un riassestamento delle alleanze a livello politico. Apparve sulla scena un partito nuovo, quello Repubblicano, opposto allo schiavismo non solo per motivi morali ma anche per ragioni economiche e sociali.
Un costante e crescente flusso di immigrati, molti dei quali provenienti da paesi cattolici, fece emergere verso il 1853 una questione nazionale che portò alla nascita di numerose società segrete. Dopo essersi collegate tra di loro nel ”Ordine della Bandiera a Stelle e Strisce”, queste confluirono in un movimento politico di impronta nativista e sovranista conosciuto come Know-Nothing, o Partito Americano.
Il suo scopo era quello di purificare la politica e limitare l’influenza degli immigrati. Al grido di “Gli Americani devono governare l’America” reclamavano leggi di naturalizzazione più severe, prove di alfabetizzazione per accedere al voto e l’esclusione degli stranieri e dei cattolici dagli uffici pubblici. Per un breve periodo partecipò alla vita nazionale per poi dissolversi gradualmente: malgrado gli allarmi, nessuno nel Paese si sentiva veramente in pericolo, essendovi oltretutto cose più importanti cui occuparsi.
Uniti dallo stesso clima di paranoia politica, in alcuni casi i suoi sostenitori si erano alleati tacitamente con i Repubblicani. In seguito a questo periodo di disordine politico nel 1856 si era dissolto il partito Whig, i Democratici erano diventati più Sudisti, i Know-Nothing scomparvero nell’oblio ed il Partito Repubblicano, in rapida ascesa, stava diventando la forza politica dominante nel Nord. I fermenti nel Kansas stavano contribuendo a diffondere sospetti su una congiura di proprietari di schiavi del Sud.
Cresce la distanza tra Stati del Nord e quelli del Sud: Il Nord e il Sud si stavano inevitabilmente allontanando. L’avanzata della Rivoluzione Industriale aveva fatto del Sud un cliente dell’Inghilterra, le cui industrie avevano bisogno del cotone grezzo che vi era prodotto. L’economia di quegli Stati, quasi esclusivamente agricola, non era in grado di realizzare i necessari prodotti manifatturieri che dovevano quindi essere acquistati dall’Inghilterra al miglior prezzo possibile. I notabili del Sud erano perciò favorevoli ad una politica di libero scambio soprattutto con quest’ultima.
Nel Nord invece, in pieno clima della Rivoluzione Industriale, sorgevano fabbriche accompagnate da un capitalismo di manodopera salariale libera. Sia la classe operaia che quella imprenditoriale insistevano per essere protetti dal continuo afflusso di prodotti inglesi con i quali non potevano competere: tariffe elevate dunque per la crescente industria del Nord che invece per il Sud sarebbero state rovinose.
Per produrre più cotone servivano più schiavi ed il Sud agli occhi di tutti era il regno del cotone. Nei nuovi territori gli agrari del Sud volevano estendere il loro sistema di piantagioni per produrne di più. Al contrario, per i coloni del Nord l’intento era quello di creare delle piccole fattorie mentre per i suoi imprenditori e commercianti la priorità era costruire ferrovie ed aprire nuovi mercati.
Il problema si stava anche acquisendo una dimensione morale: nel frattempo, infatti, nel 1833 lo schiavismo era stato abolito nelle colonie britanniche, in quelle francesi nel 1848 ed in date diverse, entro la metà del secolo, nelle nuove repubbliche dell’America Latina. La servitù agricola scomparve dai possedimenti degli Asburgo nel 1848 ed in Russia venne soppressa nel 1861.
Negli Stati del Sud stava emergendo un nazionalismo locale che assumeva anche un aspetto culturale. In quelli del Nord cresceva invece il sentimento abolizionista, caratterizzato dalla contrarietà e dall’indignazione di fronte alla questione della schiavitù.
Dal 1815 all’inizio della Guerra Civile - una nazione in crescita: Nel corso degli anni di cui si è appena parlato il Paese subì enormi cambiamenti: dai suoi albori, il XIX secolo aveva aperto la via a quel processo di trasformazione che avrebbe sostituito la tradizionale società agricola con una di tipo industriale, urbana e tecnocratica che, tra alti e bassi, si è estesa a tutto il mondo fino ad oggi.
Negli Stati Uniti la popolazione tendeva a raddoppiare pressappoco ogni 25 anni. Nel 1860 superava già i 31 milioni ed era maggiore di quella inglese. In questo stesso anno, più di un terzo risiedeva in centri urbani con più di 2500 abitanti. Le città di Boston e di New York avevano entrambe superato i 150 mila.
Dopo il 1815 le cifre dell’immigrazione dall’Europa iniziarono a salire a tal punto che nel decennio successivo al 1830 entrarono nel Paese in media 50 mila persone l’anno. Furono 100 mila dopo il 1840 e negli anni successivi al 1850, 150 mila. In questo stesso periodo gli immigrati superarono i 5 milioni, più dell’intera popolazione del 1790.
La regione più urbanizzata corrispondeva agli Stati del Nord-Est, dove nel 1860 più di un terzo della popolazione risiedeva nelle città. Nel Sud, a vivere nei centri urbani era invece meno del 10%: le città erano poche e di dimensioni relativamente ridotte. In questo stesso anno vi erano negli Stati Uniti otto città con più di 150 mila abitanti. Negli Stati del Sud il numero degli schiavi era passato dai poco meno di 860 mila del 1800 ai 4 milioni del 1860. I neri liberi erano circa 250 mila. Il 90% della popolazione di colore viveva al Sud al di sotto della linea Mason-Dixon che fino alla Guerra Civile era considerata la frontiera tra gli Stati liberisti e quelli schiavisti.
La vita degli schiavi era migliore di quella che si svolgeva altrove, inclusa quella delle classi operaie europee. La loro alimentazione era migliore di quella di molti braccianti agricoli inglesi e ben superiore a quella del contadino irlandese o russo. La loro giornata lavorativa non era poi più lunga di quella di molti operai degli Stati del Nord. Avevano la domenica libera, oltre che parte del sabato. La crudeltà dei trattamenti e le brutalità non erano la regola e la degradazione non era dunque tanto fisica quanto psicologica. Tra bianchi e neri si giunse col tempo a forme di adattamento spesso complesse.
Lo schiavismo fu anti-economico, così come lo era la convinzione che l’agricoltura fosse l’unica occupazione degna di un gentiluomo. A questo modo di vedere le cose corrispose la scarsa disponibilità di capitali per un decollo industriale: nel 1860 il Sud riusciva a produrre poco meno del 10% dei manufatti in America e la maggior parte dei guadagni dei proprietari agricoli finiva al Nord, dove andava a finanziare la crescente espansione industriale, insieme alla meccanizzazione della produzione e l’ingrandimento delle fabbriche.
Dal punto di vista dell’economia, alla tradizionale società agraria si andava sostituendo un’economia capitalista e commerciale. Prevalentemente agrarie erano le regioni dell’Ovest, negli Stati del Sud aumentava la produzione del cotone coltivato su vasta scala mentre nel Nord-Est si diffondeva la Rivoluzione Industriale.
Tra il 1810 ed il 1860 i lavoratori nell’industria manifatturiera passarono da 349 mila a quasi un milione e mezzo ed il capitale investito da 50 milioni di dollari a circa un miliardo. La gran parte di questo sviluppo industriale e capitalistico si stava concentrando negli Stati della Nuova Inghilterra e nella media fascia atlantica. Malgrado questi enormi progressi, il periodo di maggior sviluppo industriale doveva ancora arrivare.
Il processo di colonizzazione era facilitato da una rivoluzione nei trasporti mentre intanto il numero degli Stati era passato da 18 a 33 e i confini nazionali si erano estesi fino al Pacifico. Nel 1810 un americano su sette viveva ad Ovest della catena degli Appalachi. Nel 1860 questa proporzione era passata ad uno su due, proporzione che per le tribù indiane invece cominciava a significare l’allontanamento dalle loro terre. Nei vent’anni tra il 1840 ed il 1860 il progresso tecnologico contribuì ad un sostanziale aumento della produzione agricola di questi territori occidentali.
Grazie al vapore si moltiplicavano i battelli fluviali e cresceva la rete ferroviaria che nel 1840 contava oltre 5000 km. Vent’anni dopo aveva raggiunto circa 50 mila km, tre volte quella inglese. Si estesero anche altre vie di comunicazione come quella fluviale e la rete stradale. Tutto ciò consentì ai porti sull’Atlantico di superare New Orleans per volume di traffico verso i territori dell’Ovest. Nuovi collegamenti furono agevolati dal telegrafo, tanto che nel 1860 le linee telegrafiche avevano superato gli 80 mila km.
A questa crescita dell’economia interna corrispondeva quella del commercio con l’estero: dai 67 milioni di dollari del 1825 si giunse ai 333 milioni del 1860. Gran parte di questo commercio si avvaleva di navi americane, tanto che tra il 1820 ed il 1860 il tonnellaggio passò da 646 mila tonnellate a più di 2 milioni e trecento mila. I velieri stavano gradualmente cedendo il passo al ferro e al vapore.
Questo fu anche un periodo di grande fermento sociale e culturale nel quale fiorirono intensi dibattiti sulla scuola, la religione, lo schiavismo, i rapporti tra i sessi, i diritti delle donne e l’ordinamento carcerario. Nella cultura andava emergendo una nuova vena che poteva dirsi autenticamente americana.
L’elezione di Lincoln e le origini della Guerra Civile: Mentre il Paese continuava ad espandersi, le sue regioni acquistarono in varietà, diversità e caratteristiche proprie. Il contrasto tra Nord e Sud, tra quello di un sistema impostato sul lavoro salariale e uno fondato sullo schiavismo, fece emergere quella che era la più pericolosa delle differenze in quanto non solo economica e politica, ma anche razziale.
Abbiamo visto come per molti americani del Nord vi fosse il sospetto che l’idea del Destino Manifesto fosse un semplice strumento grazie al quale il Sud potesse impossessarsi di più territori da convertire in Stati schiavisti e come le due società si stessero gradualmente separando. E’soprattutto sulla questione dell’espansione verso Ovest che emersero le differenze politiche tra gli Stati del Nord e quelli del Sud: si sarebbe potuta consentire la schiavitù in questi nuovi territori o doveva limitarsi solo al Sud?
Come si è visto in precedenza, vari furono i tentativi di risolvere questo problema: nel 1820 con il Compromesso del Missouri, al quale seguì il Compromesso del 1850, sostituito poi dal Kansas-Nebraska Act del 1854. Nel 1857 la Corte Suprema decise sul caso Dred-Scott ed il suo presidente, Roger Taney, si spinse troppo in là nella sua opinione, tanto che il giudizio finale contribuì a dividere ulteriormente la nazione ed infiammarne il clima rendendo in questo modo una guerra civile inevitabile.
Il Partito Democratico finì con il dividersi in una componente nordista ed una sudista; il Partito Repubblicano finì invece col rappresentare interamente il Nord e nominò Lincoln sulla base di un programma di contenimento della schiavitù: la sua elezione fece precipitare il Paese nella Guerra Civile.
Il 20 Dicembre 1860, nel timore che un presidente repubblicano avrebbe imposto l’abolizione della schiavitù, lo Stato della Carolina del Sud decise di lasciare l’Unione. Poco più di tre mesi dopo, il 4 Marzo dell’anno successivo, ne seguì la secessione di altri sei Stati che decisero di unirsi tutti insieme per formare gli Stati Confederati d’America. Se questi ultimi si sarebbero battuti per impedire l’abolizione della schiavitù, il Nord all’inizio entrò in guerra non tanto per liberare gli schiavi quanto per conservare l’Unione. Fu solo nel 1863 che l’impulso dato dalla guerra, al quale si aggiunse l’accresciuto potere dell’ala radicale del Partito Repubblicano, fece dell’emancipazione un ulteriore scopo della guerra.
Date queste premesse, la guerra sarebbe stata totale perché tali furono i suoi obbiettivi: ripristino dell’Unione da un lato, l’indipendenza degli Stati del Sud dall’altro. In poche parole, il rifiuto di Washington di riconoscere il diritto degli Stati di staccarsi dall’Unione, mentre per gli Stati del Sud si trattava invece di evitare quella che veniva considerata una minaccia allo schiavismo. Queste le origini immediate della guerra.
Come espresso dal virginiano James Mason, si trattò soprattutto “di una guerra di sentimento e di opinione da parte di un tipo di società contro un tipo diverso di società”: non vi era infatti modo per gli uomini del Sud di conservare il loro stile di vita e la propria comunità all’interno dell’Unione. Si sentivano troppo diversi.
Sin dall’inizio delle ostilità risultò evidente come il numero dei volontari non bastasse. Nel Marzo 1863 da ambo le parti fu votato il primo atto di coscrizione nazionale della storia americana. Scopo del conflitto per il Nord era di condurre da subito una guerra di tipo offensivo da combattere sia ad Est che ad Ovest, prendere il controllo delle rotte fluviali più importanti insieme alle piazzeforti dell’Ovest per poi conquistare la capitale Richmond. Per riuscirvi, istituì un imponente blocco navale al fine di tagliare fuori i porti del Sud dai mercati europei: occupazione del Sud dunque e distruzione delle sue Forze armate.
Per i Confederati si trattava più semplicemente di conservare la loro indipendenza. Per battersi sarebbe servita soprattutto una strategia difensiva: combattevano in casa, conoscevano il terreno ed erano in grado di condurre con successo una guerra di logoramento. Trattandosi soprattutto di contrastare gli attacchi nemici, veniva meno la supremazia numerica nordista. Molto di più non potevano fare, dato che nel Nord vivevano poco più di 27 milioni di persone e nel Sud appena 8. Gli schiavi a loro volta erano poco meno di 4 milioni. Sotto tutti i punti di vista il Nord era molto più forte: produceva 15 volte più ferro, 38 volte più carbone e 27 volte più manufatti di lana. Vi operavano inoltre i 4/5 delle fabbriche di tutti gli Stati Uniti.
Questo fu un conflitto dei più sanguinosi, il maggiore nel periodo tra le guerre napoleoniche e la Prima Guerra Mondiale ed alcune delle battaglie furono imponenti quanto quelle combattute nell’epoca napoleonica. I due eserciti schierarono complessivamente circa 3 milioni di soldati. Le vittime furono più di un milione, con un numero dei morti che in proporzione si rivelò più alto di quello subito da qualsiasi esercito nel corso del primo conflitto mondiale: il totale fu di 636.387, poco più del 20% dei soldati arruolati.
Agli occhi di molti storici fu la prima guerra moderna: scaturì da un contrasto di ideologie ed era un conflitto con obbiettivi illimitati dal quale non si poteva uscire che con una piena vittoria.
Un nuovo Segretario di Stato: Come Segretario di Stato Lincoln scelse William Henry Seward, preminente senatore abolizionista. Questi era stato scelto non per le sue competenze in politica estera, quanto piuttosto per il suo peso nell’ambiente politico. Il motivo per il quale era stato sconfitto nelle elezioni da Lincoln è che molti lo ritenevano troppo ostile alla schiavitù.
Una volta nominato Segretario di Stato si persuase che Lincoln era privo di progetti, che non esercitasse abbastanza il suo potere nell’affrontare i problemi sorti con la Secessione e che fosse fondamentale evitare un conflitto civile. Inizialmente era sua convinzione, ed insieme a lui erano molti a pensarlo, che gran parte dei sudisti volessero conservare l’Unione e che a volerla sciogliere invece fosse solo un pugno di estremisti.
Per via dei suoi tentativi di conciliazione fu soprattutto lui a dare ai Confederati l’impressione che Washington avrebbe ordinato l’evacuazione di Fort Sumter, rinunciando così a combattere. Il forte si trovava di fronte al porto di Charleston, nella Carolina del Sud, ed i Confederati avevano chiesto al suo comandante di arrendersi insieme alla guarnigione. Il rifiuto fu netto.
Conscio dell’aggravarsi della situazione, il 1 Aprile Seward trasmise a Lincoln un documento a dir poco sorprendente: per porre rimedio alla crisi ed evitare una guerra, egli suggeriva di tenere uniti gli americani scegliendosi qualche altra nazione con la quale aprire un contenzioso ed eventualmente entrare in guerra. Era sua opinione che un conflitto esterno sarebbe stato l’unico modo per impedire la secessione e conservare l’unità del Paese.
Già nel Gennaio del 1861 Seward aveva espresso l’idea che se la città di New York fosse stata attaccata da una potenza straniera “tutte le colline della Carolina del Nord avrebbero mobilitato la loro popolazione per venirle in soccorso”. All’ambasciatore di Francia disse: “nulla mi darebbe più piacere che vedere una potenza europea intervenire in favore della Carolina del Sud. L’avrei quindi attaccata e la stessa Carolina del Sud, insieme agli altri Stati secessionisti, si sarebbe unita a me nel farlo”.
I diplomatici europei in missione a Washington non erano ignari di questo pericolo, tanto che l’ambasciatore inglese avvertì Londra che nel Nord forte era la tentazione di scatenare una guerra per distogliere l’esaltazione dell’opinione pubblica e raccogliere consenso coinvolgendo il Paese in un’avventura esterna. Nulla di nuovo per chi è abituato a seguire le vicende internazionali: si trattava del tipico rimedio di chi, nell’incapacità di risolvere una crisi interna, la proietta verso l’esterno per distrarre l’opinione pubblica ed ottenerne il consenso.
Questo particolare episodio rimase segreto fino alla fine del secolo quando furono pubblicate le carte di Lincoln: egli non solo era contrario a questo memorandum ma temeva anche potesse avere effetti negativi se qualcuno ne fosse venuto a conoscenza. Per un certo periodo il Segretario di Stato continuò ad orientare la sua azione diplomatica come se fosse prossimo a provocare una guerra contro l’Inghilterra o qualche altro paese.
La guerra scoppiò a seguito dell’attacco a Fort Sumter. Gli Stati della Virginia, del Tennessee, dell’Arkansas e della Carolina del Nord si unirono ai loro altri fratelli, da cui il nome ufficiale di “Guerra di Ribellione” dato dal Nord al conflitto.
Il Nord si adoperò immediatamente istituendo un blocco navale per negare ai Secessionisti le risorse necessarie ad affrontare la guerra. Senza capacità industriali gli Stati del Sud dovevano importare la maggior parte degli armamenti oppure catturarli al nemico. Con l’inasprirsi di questo blocco e l’intensità dei combattimenti, gli Stati Confederati incontrarono difficoltà sempre maggiori nel rimpiazzare gli equipaggiamenti e le armi perdute. Allo stesso tempo, con l’avanzare del conflitto, crollava anche la produzione agricola rendeva sempre più difficile nutrirsi.
Si apre la partita diplomatica: Poco dopo l’inizio delle ostilità, il governo di Londra emise una nota nella quale confermava la sua neutralità e consigliava ai cantieri inglesi di evitare la costruzione di naviglio da guerra a vantaggio di una delle due parti. I marittimi inglesi furono avvisati di non infrangere blocchi navali legalmente istituiti dalla marina americana e ai cittadini fu ordinato di non arruolarsi nelle Forze armate delle parti in conflitto. Ai Confederati concesse lo stato di belligeranza, che però non era l’equivalente di un riconoscimento come nazione indipendente. Si trattava di un’affermazione di neutralità in attesa di vedere quali sarebbero stati gli sviluppi successivi.
Venuto a conoscenza di una missione di esponenti confederati a Londra, Seward decise di inviare al governo inglese una nota piena di minacce, compresa quella di una rottura dei rapporti diplomatici se gli Inglesi avessero proseguito ad avere conversazioni con i secessionisti. In modo piuttosto vago menzionava persino la possibilità di una guerra contro delle potenze europee.
Il presidente Lincoln pensò bene di addolcire questa nota. Nonostante ciò, quando l’ambasciatore americano giunse a Londra scrisse nel suo diario che gli sembrava che la sua amministrazione fosse sul punto di dichiarare guerra a tutta l’Europa. Questo comportamento fece pensare ad alcuni esponenti politici francesi ed inglesi che il Segretario di Stato fosse di carattere instabile ed erratico nei modi e che di fronte a lui era meglio comportarsi con prudenza.
L’azione diplomatica degli anni della Guerra Civile seguì binari piuttosto precisi: quali le scelte delle potenze europee, soprattutto Francia e Gran Bretagna, di fronte alla possibile disgregazione dell’Unione? Sarebbero rimaste neutrali o avrebbero piuttosto esteso il loro riconoscimento agli Stati Confederati dando loro la legittimità di nazione indipendente? Vi sarebbero stati tentativi di intervento nelle questioni interne delle due parti? Nulla dunque a che vedere con gli effetti di una azione sulle potenze europee, quanto piuttosto le conseguenze delle decisioni di queste ultime sul corso degli eventi americani.
Questi anni di guerra ebbero conseguenze di rilievo sul diritto internazionale marittimo. Nel 1856, insieme ad una quarantina di altre nazioni ma senza gli Stati Uniti, le potenze europee avevano firmato la dichiarazione di Parigi per stabilire alcuni princìpi di comportamento sul mare. La Guerra Civile offrì l’occasione per saggiare l’efficacia di queste regole che furono anche uno dei primi esempi di interdipendenza economica tra nazioni a seguito della Rivoluzione industriale. L’aspetto più importante fu quello della dipendenza dell’Europa dalle forniture di cotone provenienti dagli Stati Uniti.
Negli atteggiamenti delle potenze europee di fronte al conflitto vi furono aspetti indubbiamente ideologici: in caso di vittoria degli Stati Confederati, le monarchie conservatrici vedevano la possibilità di sconfiggere in casa propria le spinte repubblicane oltre che i princìpi di uguaglianza derivanti dalla Rivoluzione Francese. Le forze liberali, al contrario, vedevano in una vittoria dell’Unione un’opportunità di progresso per la loro causa. Le posizioni degli Stati europei dipendevano quindi dagli obbiettivi di quelli che al loro interno erano gli equilibri tra le forze liberali o conservatrici.
Negli Stati Uniti, per le due parti in guerra la politica estera si fece cosa seria: già prima dell’inizio delle ostilità Richmond e Washington si erano rese conto che le posizioni delle potenze europee avrebbero avuto un peso determinante nell’andamento del conflitto.
Riflettendo timori da molti condivisi, sin dai primi giorni della sua amministrazione il presidente Lincoln si era posto pochi ma chiari obbiettivi: impedire che Parigi e Londra riconoscessero gli Stati Confederati, escludere qualsiasi intervento armato ed evitare ogni interferenza sul blocco navale imposto ai ribelli.
La politica estera degli Stati del Sud aveva scopi opposti: ricevere la massima assistenza possibile dall’Europa e portare gli Stati del Nord a rinunciare all’idea di ristabilire l’Unione con la forza delle armi in virtù di un riconoscimento della loro indipendenza da parte europea.
Per gli uni dunque tenere l’Europa il più possibile fuori dal conflitto, per gli altri invece persuadere gli europei a concedere loro il massimo degli aiuti. Dopo l’inizio del conflitto nel 1861 e per un discreto lasso di tempo in seguito, forti erano i dubbi sulle possibilità del Nord di schiacciare i Confederati e imporre loro l’Unione: malgrado l’inferiorità delle sue forze, il generale Lee continuava infatti a sconfiggere l’armata del Potomac.
Fino alla battaglia di Gettysburg che capovolse le sorti della guerra, sarebbe stato lecito per i governi europei ritenere che il Nord non avrebbe potuto vincere ed essere così presi dalla tentazione di riconoscere l’indipendenza degli Stati del Sud o di proporsi per una mediazione al fine di trovare una soluzione alla crisi americana.
Cambiano le sorti della guerra: Alla fine del 1863 la Confederazione era in crisi. Sapeva però che se fosse riuscita ad ottenere l’appoggio dell’Europa la sua indipendenza sarebbe stata certa. Era ovvio che l’andamento della guerra sarebbe stato determinato dalla situazione sul campo. Le potenze europee potevano prendere in considerazione la possibilità di un intervento solo se il Sud fosse stato prossimo alla vittoria. La Francia aveva lasciato intendere che avrebbe seguito l’Inghilterra, ma non avrebbe agito per conto proprio.
Se l’offensiva di Lee nell’autunno del 1862 avesse avuto successo, l’Inghilterra avrebbe potuto riconoscere i Confederati. A seguito della battaglia di Antietam, avvenuta il 17 Settembre 1862, il progetto fu accantonato e dopo Gettysburg definitivamente abbandonato. Questa battaglia rappresentò il momento di massima speranza per il Sud, in quanto per il generale Lee si trattava di vedere se sarebbe riuscito ad entrare a Washington e vincere la guerra. Ci provò, non ce la fece e da quel momento si rese conto che la causa del Sud era perduta. Sul terreno rimasero 51 mila caduti.
A cinque giorni dallo scontro di Antietam, il presidente Lincoln mise da parte ogni esitazione ed emanò un proclama di emancipazione da applicarsi unicamente nei territori in mano ai Confederati. Da quel momento la guerra non fu solo un conflitto in difesa dell’Unione ma anche per la libertà di milioni di uomini, dandole quindi una dimensione morale che fino a quel momento le mancava. Anche se inquadrati in unità segregate con alla testa degli ufficiali bianchi, a causa di questo proclama 186 mila volontari neri si arruolarono nelle fila dell’Unione e molti si distinsero in combattimento.
La questione della schiavitù non fu mai un fattore determinante nell’orientare le scelte politiche delle potenze europee. Con l’avanzare del conflitto questa si tradusse però in una forte spinta morale a favore dell’Unione. Una volta emanato il Proclama, la questione degli schiavi divenne un’opportunità per acquisire consensi in Inghilterra, prima nazione ad abolire il commercio degli schiavi.
Molto meno conosciuta, ma altrettanto importante, la cattura della piazzaforte di Vicksburg da parte del generale Grant il 15 Luglio del 1863. Per il Nord la vallata del Mississippi era un punto cruciale nel conflitto e con questa vittoria, insieme alla caduta di altre fortificazioni lungo il fiume, l’intero corso del Mississippi cadde nelle mani dell’Unione. Il Sud fu tagliato in due e gli Stati della Louisiana, dell’Arkansas e del Texas rimasero esclusi dalla Confederazione.
Venne così portato a termine il cosiddetto piano Anaconda, concepito da Winfield Scott: egli era convinto che la guerra sarebbe stata lunga e che era dunque necessario piegare il Sud combinando un blocco navale inflessibile ad una pressione militare su tutte le aree di confine.
Il Sud e la questione del Re Cotone: Nel 1858, tre anni prima dello scoppio delle ostilità, il senatore della Carolina del Sud James Hammond pronunciò in aula queste parole: “Senza sparare un colpo, senza sguainare una sciabola metteremo il mondo ai nostri piedi. Il Sud è pienamente in grado di andare avanti per uno, due o tre anni senza piantare un seme di cotone. Ma se non arriva il cotone, questo è certo: l’Inghilterra crollerebbe portandosi appresso tutto il mondo ad eccezione del Sud. No, che nessuno osi dichiarare guerra al cotone, che nessuna potenza sulla terra osi farne una guerra. Il cotone è re”.
Nell’economia del periodo, il benessere dell’Inghilterra e della Francia dipendeva in gran parte dalle balle di cotone provenienti dalle piantagioni del Sud. Senza questa materia prima le loro industrie e le loro manifatture avrebbero cessato di funzionare per poi essere inevitabilmente costrette a chiudere. Ne sarebbe seguito un crollo dei ricavi, la caduta del Pil e licenziamenti a catena: non tanto una recessione, quanto piuttosto una pesantissima depressione economica.
I Confederati ritenevano che né l’Inghilterra né la Francia avrebbero mai potuto accettare questa situazione: si sarebbero aspettati quindi un inevitabile riconoscimento diplomatico insieme ad un flusso di aiuti. Per entrambe il cotone era materia prima di vitale importanza.
Se l’Unione non avesse deciso il blocco dei porti del Sud, le potenze europee sarebbero potute intervenire per garantirsi le forniture di questa indispensabile materia prima. La logica dell’economia le avrebbe inevitabilmente portate a venire in soccorso della causa confederata per salvare i loro stessi apparati economici: dal 1840 in poi, il 75% del cotone grezzo lavorato in Inghilterra proveniva dagli Stati del Sud. Ad un anno dalla Guerra Civile, il commercio inglese aveva raggiunto la cifra di 165 milioni di sterline: di questi, 55 milioni provenivano dall’industria tessile del cotone, dalla quale per il suo tenore di vita dipendeva un quinto della popolazione. Tale era l’importanza del cotone che per anni questa dipendenza aveva preoccupato gli inglesi.
Le speranze del Sud erano elevate, in quanto per molti questa dipendenza avrebbe costretto l’Inghilterra ad intervenire e a premere sul Nord per una mediazione. Per stringere i tempi, alcuni ritenevano che era inutile attendere e che fosse il caso di mettere subito in atto un embargo sulle esportazioni: furono così date alle fiamme oltre due milioni di balle grezze di cotone per privarne l’Europa.
Verso la fine dell’estate del 1862 il governo inglese meditò a fondo sull’opportunità di intervenire, dato che la scarsità di cotone iniziava a farsi sentire: la disoccupazione era in aumento, Napoleone III spingeva per una mediazione congiunta con Londra per porre fine alla guerra o altrimenti far terminare il blocco navale e riconoscere l’indipendenza degli Stati Confederati.
La fine del Re Cotone: Come spesso accade nelle vicende umane, le cose non si svolgono come inizialmente sperato. Poco prima dello scoppio del conflitto vi era stata una sovrapproduzione di prodotti cotonieri. Molte manifatture in Inghilterra si trovarono così ad avere in magazzino una quantità eccessiva di merce invenduta da sfiorare in alcuni casi la bancarotta. Di conseguenza, per un breve lasso di tempo questa mancanza di cotone fu piuttosto un bene e questo fino all’inizio del 1863.
Da quell’anno la scarsità di cotone iniziò a farsi sentire, ma non si trattava di un malessere solo apparente e oltre due milioni di lavoratori si trovarono presto senza impiego. Stavano comunque emergendo altre opzioni, tanto che il governo di Londra non poteva più basare le sue decisioni sulla sola disponibilità del cotone. Tra queste, soprattutto il fatto che nel corso del 1863 gli Inglesi cominciarono a cercare altri luoghi di produzione, iniziando a sostituire le importazioni dal Sud con quelle dall’Egitto e dall’India. La cosa ebbe successo, tanto che nell’ultimo anno di guerra le industrie britanniche furono in grado di importare le stesse quantità di cotone grezzo che in passato acquistavano dagli Stati del Sud.
Come sovente accade in caso di conflitto, questa guerra finì con lo stimolare altri settori dell’economia inglese. A realizzare lauti guadagni non furono solo le manifatture di lana, che incrementarono notevolmente le loro esportazioni confezionando le uniformi dell’esercito unionista ma, anche per le continue richieste del Nord, i produttori di scarpe, stivali, acciaio e navi.
Nel 1864 sul London Times si poteva leggere che l’Inghilterra era altrettanto prospera di quanto lo fosse prima della guerra e che alla fine il cotone non si era dimostrato quel “re” di cui tanto si era parlato. In conclusione, in un mondo in rapida industrializzazione i Confederati commisero il grave errore di affidarsi ad un’unica materia prima: il cotone.
L’avventura messicana di Napoleone III: L’impresa messicana dell’imperatore Napoleone III giunse al suo apice nel 1862, anno nel quale il presidente Lincoln era più che mai impegnato a salvaguardare l’Unione dagli Stati Confederati del Sud.
Il generale Miguel Miramon aspirava a governare il Messico. Appoggiato dalla Chiesa e dalla casta dei proprietari terrieri, egli contrasse in Europa dei prestiti a tassi esorbitanti. Naufragato il suo intento, gli successe Benito Juarez che decise di non restituire questi prestiti. Mentre gli Stati Uniti erano impantanati nella loro Guerra Civile, Inghilterra, Francia e Spagna, che come abbiamo visto non avevano mai preso sul serio la dottrina Monroe, inviarono nel 1861 un corpo di spedizione a Veracruz.
Gli inglesi volevano recuperare i soldi prestati, gli spagnoli avevano in mente di instaurare una nuova monarchia in Messico e l’imperatore Napoleone III tramava per realizzare un progetto di crearvi un Impero e mettervi alla testa l’arciduca austriaco Massimiliano d’Asburgo. Inghilterra e Spagna ritirarono presto i loro contingenti, mentre Napoleone III col suo esercito proseguì nell’avventura. Nel 1861 il liberale Benito Juarez fu eletto presidente e si oppose all’impresa francese. Massimiliano venne nominato imperatore nel 1864, trovandosi in mezzo alla rivalità tra i due.
Evitando toni provocatori, il Segretario di Stato William Henry Seward espresse a più riprese la contrarietà del suo governo al progetto imperiale di Parigi. Evitò tuttavia di intraprendere qualsiasi azione: non si poteva infatti combattere più di una guerra alla volta, meglio quindi agire con moderazione.
Alla Casa Bianca vi era poi il timore che Napoleone III avrebbe potuto unirsi ai Confederati. Quel che non si sapeva era che lo stesso imperatore seguiva una logica non dissimile: si guardava bene dall’avvicinarsi al governo del Sud per paura che Washington potesse agire in modo da mettere a repentaglio i suoi progetti di un impero messicano.
Il 9 Aprile del 1865 ad Appomatox il generale Lee si arrese a Grant sancendo di fatto la vittoria dell’Unione e mettendo fine al conflitto civile tra gli Stati del Nord e quelli del Sud. Con la guerra finalmente alle spalle, Seward cambiò tono e pretese l’immediato ritiro della Francia dal Messico. Per mostrare che stava facendo sul serio, inviò in Texas il generale Sheridan alla testa di qualcosa come 50 mila veterani bene addestrati alla guerra ed abituati al combattimento.
L’imperatore francese recepì il messaggio e si accorse che le sue ambizioni messicane non fossero più convenienti. Di conseguenza, nel 1867 ordinò il ritiro del suo corpo di spedizione dal Messico lasciando Massimiliano privo di appoggio militare. Franò così per sempre il suo sogno di un impero messicano. Passato poco tempo, Benito Juarez sconfisse l’arciduca austriaco e lo fece fucilare.
Nella sua corrispondenza con Napoleone III Seward aveva sempre evitato di menzionare il termine “dottrina di Monroe”, che sapeva essergli intollerabile. Ad onor del vero va detto che a persuadere Napoleone ad abbandonare il suo sogno messicano non furono tanto le pressioni americane, quanto una serie di eventi che si stavano sviluppando in Europa.
A condurlo al disastro sarebbe stato un errore di valutazione in politica estera. Il 1866, anno successivo alla resa degli Stati Confederati, fu per lui un anno negativo. Era persuaso che a seguito del conflitto austro-prussiano sarebbe presto diventato l’uomo forte d’Europa, solo che puntò sulla parte sbagliata: nel giro di sei settimane le truppe di Vienna furono schiacciate da quelle prussiane.
Il risultato di questa inaspettata sconfitta rendeva palese che la Prussia di Bismarck stava emergendo come nuova grande potenza in Europa. L’imperatore francese, di conseguenza, venne subito preso di mira riguardo l’avventura messicana: i suoi avversari lo rimproveravano di aver sprecato fondi, sacrificato uomini ed indebolito l’esercito per ambizioni lontane piuttosto che concentrarsi su ciò che stava avvenendo alla soglia di casa. Napoleone capì che era tempo di lasciarsi alle spalle quei sogni imperiali, riportare i soldati a casa e prepararsi a fronteggiare la minaccia prussiana, che per Parigi poteva diventare un serio pericolo.
Questi dunque i veri motivi dell’abbandono del Messico e non, come credevano gli americani, le prese di posizione del loro governo che si rifacevano alla dottrina Monroe. Lo stesso vale per il ritiro degli Spagnoli dalla Repubblica Dominicana nel 1865: ad esserne la causa, non tanto le pressioni di Washington ed i velati richiami alla dottrina Monroe, quanto piuttosto le attività di guerriglia e la febbre gialla.
Agli occhi di tutti negli Stati Uniti questi due episodi non furono solo un grande successo diplomatico per Seward, ma contribuirono a fare della dottrina Monroe un pilastro della politica estera americana, accettato da chiunque, indipendentemente dal colore politico. La d minuscola si trasformò di conseguenza in maiuscola: d’ora in poi si sarebbe parlato della “Dottrina Monroe”.
A trasformarla in vero e proprio dogma furono dunque una serie di avvenimenti che si verificarono nel corso della Guerra Civile. Di questi il più importante fu il tentativo napoleonico di creare un impero fantoccio in Messico, diretto da un arciduca austriaco ma tenuto in piedi unicamente dalla potenza militare francese.
Il caso della nave Trent e delle Laird Rams: Verso la fine del 1861 la nave da guerra San Jacinto della marina Unionista fermò in alto mare il vapore postale Trent. Al suo interno vennero trovati due diplomatici confederati diretti a Londra. Furono immediatamente catturati e rinchiusi in una prigione del Nord.
Al Trent venne concesso di proseguire la sua navigazione e appena giunto in Inghilterra scoppiò quella che fu la crisi più grave tra Londra e Washington. Il premier inglese Palmerston non era certo tipo da tollerare simili sgarbi. Era però già vecchio e prossimo alla fine della sua carriera. Erigendosi a difensore degli eterni diritti del suo Paese sul mare, egli decise di dare un’ultima zampata per restituire prestigio alla sua persona iniziando ad aizzare l’opinione pubblica.
In America, al contrario, il capitano Wilkes che comandava il San Jacinto fu subito trasformato in eroe nazionale, tanto che nell’autunno del 1861 gli umori del Nord non erano particolarmente bendisposti: gli eserciti dell’Unione stavano passando infatti da un rovescio all’altro e la cattura dei due emissari, anche se disarmati, appariva come una vittoria. Le circostanze non consentivano che venissero lasciati in mano a Palmerston e alla marina britannica.
Londra avanzò immediatamente la richiesta formale di rilascio degli emissari e pretese delle scuse dall’amministrazione Lincoln: se entro sette giorni non vi fosse stata risposta, le direttive erano di chiudere la sede della missione diplomatica di Sua Maestà a Washington. Fu il principe Alberto ad intervenire di persona per smorzare il tono della nota. Lo stesso Lord Russell, segretario agli Esteri, consigliò la calma. Palmerston, che era comunque riuscito a fare un gran baccano e mostrare la bandiera, non si oppose.
Neppure a Washington si voleva cedere: Seward esclamò che prima di rinunciare agli emissari confederati “avrebbe appiccato fuoco al mondo”. Lo stesso Lincoln era deciso a tener duro perché ai suoi occhi l’equipaggio americano non aveva fatto nulla di sbagliato. Entrambi si resero però conto che di fronte al diritto internazionale non avevano argomentazioni. Il presidente, rivolgendosi al suo Segretario di Stato, gli disse che non era il caso di combattere “più di una guerra alla volta”.
La faccenda finì col chiudersi con una lunga e contorta lettera di Seward che terminava avvisando Londra che i due emissari prelevati dal Trent sarebbero stati liberati con gioia, purché fossero gli Inglesi a venirseli a prendere. Nessuno puntava ad un intervento militare, Palmerston si calmò e Washington si fece più prudente. I toni cambiarono e lo stesso presidente Lincoln si rese conto che non era né interesse suo, né della sua amministrazione aprire controversie e cercare di marcare punti con Londra, mentre sul campo i Confederati continuavano a vincere.
Un altro episodio navale che avvelenò i rapporti tra inglesi e americani fu quello delle due corazzate note come Laird Rams. Si trattava di due navi da guerra di quasi 80 metri di lunghezza che erano state ordinate dai Confederati nel 1863 ai cantieri Laird di Birkenhead a Liverpool. L’Unione accusò l’Inghilterra di violare la neutralità ed il presidente Lincoln minacciò di inviare una squadra navale per affondarle.
Per andare avanti col progetto ed evitare un’eventuale confisca delle navi, intorno alle quali già gravitavano spie ed agenti del Nord per accertarsi della loro reale destinazione, il Segretario della Marina Confederata suggerì l’idea di venderle ai Francesi che avrebbero condotto l’operazione in nome del Pascià dell’Egitto. Alla fine, dopo una nutrita corrispondenza tra l’ambasciatore americano Adams ed il Segretario agli Esteri inglese Russell, l’ambasciatore rispose con una durissima lettera in data 5 Settembre 1863.
Ne seguì una disputa nella quale Russell accusò Adams di scarse capacità diplomatiche e di non rendersi conto della complessità della situazione. L’altro ribatté che gli Inglesi consideravano i loro obblighi internazionali privi di valore e che la neutralità britannica risultava essere “poco più di un’ombra”. Dopo successive controversie la faccenda si risolse con l’acquisto delle due navi da parte di Londra per la propria marina. Furono pagate 220 mila sterline, evitando così il rischio di una guerra e battezzate con i nomi di HMS Scorpion e HMS Wivern.
Come vedremo più avanti, non dissimile fu il caso della nave Alabama, che i Confederati impiegarono nel tentativo di infrangere il blocco imposto dal Nord. Catturò e affondo un totale di 65 navi in operazioni corsare.
Riepilogo degli indirizzi politici e dell’andamento della guerra: Come è vero anche oggi, vi è una stretta correlazione tra lo svolgersi degli eventi sul campo e le scelte diplomatiche. Quando il generale confederato Robert Lee decise di condurre le sue truppe nel Nord, lo fece nella speranza che una sua vittoria avrebbe persuaso la Gran Bretagna a riconoscere diplomaticamente gli Stati Confederati.
Verso la fine dell’estate del 1862 il governo inglese meditò a lungo sull’opportunità di intervenire. La scarsità di cotone iniziava a farsi sentire, la disoccupazione aumentava e Napoleone III insisteva per una mediazione da svolgere con Londra che ponesse fine alla guerra, al blocco navale e riconoscesse l’indipendenza degli Stati del Sud.
Fino a quel momento, l’incapacità degli eserciti dell’Unione di ottenere vittorie importanti diede agli Inglesi l’impressione di potersi offrire come mediatori per arbitrare la fine del conflitto. Al contrario di Gladstone, favorevole a appoggiare la causa del Sud, Lord Palmerston era dell’opinione che conveniva attendere l’esito di questa offensiva: se Lee avesse vinto, Washington si sarebbe aperta a questa mediazione e Londra si sarebbe fatta avanti con una proposta. Se al contrario avesse perso, all’Inghilterra conveniva tenersi in disparte: quando il premier inglese apprese dell’esito negativo dello scontro ad Antietam, affermò di non poter più sperare in una mediazione: i Confederati erano appena stati battuti e sarebbe stato meglio attendere ulteriori sviluppi.
Con riferimento al resto dell’Europa, la Guerra Civile americana era scoppiata in un momento nel quale il suo assetto era in rapido mutamento. Lord Palmerston poteva anche esaltarsi col problema della scarsità di cotone o con episodi tipo quello della nave Trent, ma la diplomazia inglese si trovava ad essere coinvolta in altri e ben più immediati problemi: il movimento per l’unificazione dell’Italia, che raggiunse il suo apice tra il 1859 e il 1861, senza menzionare poi i tentativi garibaldini di impossessarsi di Roma; il sollevamento in Polonia del 1863 e l’anno successivo la guerra tra Austria e Prussia.
Questi eventi non solo preoccupavano Londra, ma assorbivano anche l’attenzione delle grandi capitali europee. A farla breve, erano soprattutto le tensioni in Europa ad invitare alla prudenza e al non intervento nella Guerra Civile Americana. Dopo la sconfitta di Antietam del 1862 in tutta Europa la causa confederata stava perdendo terreno. A seguito di Gettysburg e di Vicksburg fu senza speranza.
A partire dal 1864 furono i sudisti stessi a rendersi conto che avevano perduto ogni possibilità di riconoscimento. La situazione era precipitata a tal punto che un agente confederato di nome Kenner fu inviato in missione a Londra e a Parigi con la proposta di rinunciare alla schiavitù in cambio di un riconoscimento diplomatico. Che questa sua missione fosse del tutto priva di speranza era lui stesso a saperlo.
In fin dei conti, anche se il timore di un intervento europeo non era mai stato così reale come supposto dai Nordisti nel 1861, né così imminente come lo si era creduto nel Sud, ciò di cui abbiamo scritto lasciò tra Stati Uniti ed Europa uno strascico di sfiducia che durò fino alla fine del secolo.
Malgrado non poche ambiguità, a dire il vero Londra non aveva fatto che seguire una politica di prudente neutralità con una preferenza nei confronti del Nord. Nel Sud si riteneva invece di essere stati traditi ed ingannati. A modo suo, ognuna delle parti in conflitto aveva qualcosa da recriminare e ciò si sarebbe riflesso soprattutto sulle possibilità di un’intesa sincera tra Stati Uniti ed Inghilterra.
Tragica conclusione della presidenza Lincoln: La Guerra Civile si chiuse con la disfatta del Sud e la resa di Appomatox nella mattinata del 9 Aprile 1865. La settimana successiva, nella serata di Venerdì santo, il presidente Lincoln si era recato insieme alla famiglia nel teatro Ford di Washington ad assistere ad una rappresentazione della commedia musicale “Il nostro cugino Americano”. Appena seduto nel palco venne raggiunto alla testa da un colpo di pistola esploso dal simpatizzante sudista John Wilkes Booth. Era la sera del 14 Aprile.
Lincoln spirò il giorno dopo e fu sostituito dal suo vice Andrew Johnson. La stessa notte anche il Segretario di Stato Seward fu vittima del medesimo complotto. Subì un attentato in casa propria ma riuscì a cavarsela per miracolo.
Terminata l’avventura messicana di Napoleone III, la politica estera degli Stati Uniti entrò in una fase di letargo. A preoccupare gli americani erano adesso soprattutto le faccende interne: la ricostruzione, lo sviluppo industriale e la marcia verso l’Ovest.
Rimasero da risolvere alcuni problemi sorti dagli anni di Guerra Civile che possono riassumersi in un inasprimento dei rapporti con Londra dovuto alle decisioni politiche prese dagli inglesi nel periodo 1861-1865. Come vedremo tra poco, vi furono negli anni successivi tensioni con il Canada, la questione dell’acquisto dell’Alaska dalla Russia nel 1867, una serie di progetti espansionistici nei Caraibi ed una rivoluzione esplosa a Cuba nel 1868 che rischiò di coinvolgere gli Stati Uniti.
La presidenza Grant e l’azione diplomatica di Hamilton Fish: Nel 1868 il generale Ulysses Grant, l’uomo che aveva condotto l’Unione alla vittoria nella Guerra Civile, fu eletto presidente. Mentre lui era persona di grande integrità, la sua amministrazione fu invece un caleidoscopio di scandali ed episodi di corruzione. Di politica estera Grant non aveva la minima nozione, in compenso aveva con sé come Segretario di Stato Hamilton Fish che, al contrario, era uomo di grandissima competenza.
Conservatore d’animo, era portato a risolvere con la massima calma e nel modo più equilibrato possibile i problemi che doveva affrontare. Contrariamente al suo predecessore Seward, non era particolarmente affascinato dall’idea del “Destino Manifesto”. Di fronte a sé aveva però un ostacolo di non poco conto: quello del Congresso, del Senato in particolare: le due Camere erano controllate dai Repubblicani radicali e soprattutto da Charles Sumner, capo del comitato Affari Esteri e come tale non privo di potere ed influenza.
Quest’ultimo era ossessionato dalla convinzione che nel corso della Guerra Civile Londra si fosse schierata dalla parte degli Stati Confederati, consentendo in questo modo il prolungamento del conflitto. Ne seguiva per lui che gli Inglesi avrebbero dovuto rifondere tutte le spese sostenute dall’Unione nel corso della guerra, a partire dalla battaglia di Gettysburg. Quello che però evitava di dire è che pensava di impossessarsi dei territori del Canada.
Secondo lui gli Inglesi avrebbero dovuto cedere agli Stati Uniti quel paese confinante per saldare i conti di guerra con Washington. L’acquisto da parte di Seward dell’Alaska, comperata dalla Russia nel 1867 per due centesimi l’acro, fu uno dei suoi rarissimi progetti ad essere approvato dal Senato e questo per via delle pressioni di Sumner, che ne voleva fare uso per sottrarre il Canada agli Inglesi.
Non meno spinoso per Fish fu il problema rappresentato dallo stesso presidente Grant. Quest’ultimo era di animo espansionista, anche lui interessato a mettere le mani sul Canada. Tra i suoi progetti vi era pure quello di prendersi l’isola di Santo Domingo.
Appena Hamilton Fish assunse la carica di Segretario di Stato, sotto lo sguardo vigile di Sumner il Senato aveva appena respinto una convenzione con l’Inghilterra elaborata in precedenza dal presidente Johnson e da Seward. Si trattava della cosiddetta Convenzione Johnson-Clarendon: il Senato, per partito preso, era sempre stato contrario a qualsiasi proposta proveniente dalla presidenza Johnson.
Questa particolare Convenzione aveva a che fare con le rivendicazioni sul caso della nave da guerra Alabama. Gli Inglesi avevano accettato che questo vascello fosse costruito in Inghilterra, consentendogli poi di unirsi alla flotta confederata ed essere poi causa dell’affondamento di molte navi dell’Unione. Anche in questo caso, Londra avrebbe dovuto dare delle compensazioni economiche e soddisfare le richieste riguardanti tutte le cosiddette rivendicazioni indirette.
Per via del clima a Washington, Fish poteva solo sperare di convincere Londra che il respingimento di questa convenzione non avrebbe significato la chiusura ad ogni possibile trattativa futura. Queste difficoltà nel giungere ad un accordo finale erano anche inasprite da questioni riguardanti gli Stati Uniti ed il Canada, in quanto molti americani, soprattutto membri del Congresso, pensavano che il Canada fosse “un frutto maturo” pronto a cadere nelle loro mani.
Era opinione comune che il Canada fosse favorevole all’annessione e a far nascere questi propositi espansionisti contribuì senza volerlo anche l’Inghilterra: non pochi dei suoi politici, il più celebre dei quali Gladstone, erano dell’opinione che non fosse conveniente possedere delle colonie: queste infatti, appena cresciute e maturate, avrebbero inevitabilmente seguito la via delle colonie americane nel 1776.
Il progetto dell’ala radicale dei Repubblicani era impedire la chiusura della questione dell’Alabama, sottolineare l’importanza finanziaria delle compensazioni da ricevere per risolvere il contenzioso delle rivendicazioni indirette ed esercitare di conseguenza una tale pressione sugli inglesi da convincerli a cedere il Canada come accordo conclusivo.
A Fish questo disegno non era gradito: voleva raggiungere con gli inglesi un accordo amichevole e soprattutto tenere separata la questione del Canada da quella dei risarcimenti di guerra chiesti a Londra. Per il Segretario di Stato che i Canadesi entrassero a far parte dell’Unione andava bene, ma doveva trattarsi di una scelta libera e spontanea, non come conseguenza di pressioni o forzature su Londra.
Il problema dei Fratelli Feniani: Un’altra delle spine nel fianco che riguardavano i rapporti con il Canada erano le azioni dei cosiddetti Feniani, un’organizzazione di irlandesi fondata a New York intorno alla metà del secolo. Molti di questi erano emigrati negli Stati Uniti a seguito della terribile carestia che aveva investito l’Irlanda nel corso degli anni ‘40. Inutile dire come tutti loro odiassero gli Inglesi.
Vero scopo di questa fratellanza era l’indipendenza dell’Irlanda. Tra di loro era però diverso il modo di giungervi: c’era chi era favorevole a fomentare rivolte in Irlanda e chi, invece, a organizzare azioni di guerriglia contro il Canada partendo dal territorio americano nella speranza di avvelenare i rapporti tra Stati Uniti, Canada ed Inghilterra. La loro prima operazione oltre frontiera avvenne nel 1866. Ne seguirono altre, ognuna delle quali si risolse in un fiasco.
Queste ragazzate non intimorivano certo i Canadesi, ma dover intervenire ogni volta che qualche irlandese attraversava la frontiera costava sempre qualcosa. Di conseguenza iniziarono a protestare per la mancanza di reazioni da parte americana. L’atteggiamento ostile verso la Gran Bretagna era tale che molti negli Stati Uniti ritenevano che tutto sommato Inglesi e Canadesi ben si meritavano queste spedizioni.
In un quotidiano di Buffalo si poteva leggere “Non auguriamo nessun danno ai Canadesi, ma un po’ di sano spavento non farà certo loro del male”. Per ovvie ragioni politiche, i due più importanti giornali di New York si erano schierati a favore delle sortite dei Feniani: come accade ancora oggi nella politica americana, ogni partito cercava il voto degli irlandesi. E’ anche accaduto che quando alcuni di questi Feniani a seguito di un incursione fallita si trovarono dispersi nei pressi della frontiera, l’apparato politico di New York pagò loro il biglietto ferroviario di ritorno.
Tutto ciò aveva aspetti quasi folcloristici ma andava ad aggiungersi ad altre dispute con il Canada, come quella sulla linea di confine tra Vancouver e lo Stato di Washington, meglio nota come disputa sulle isole San Juan, e quella dei diritti di pesca nelle acque canadesi.
Una rivolta cubana e controversie sull’annessione di Santo Domingo: A complicare ulteriormente le cose ad Hamilton Fish, una rivolta scoppiata a Cuba nel 1868 contro la Corona spagnola. Considerata come “la zuccheriera del mondo”, l’isola di Cuba aveva già attirato le mire degli Stati Uniti tanto che nel 1854 era stata segretamente offerta una sostanziosa somma alla Spagna per il suo acquisto. La proposta venne ritirata quando la notizia divenne di dominio pubblico.
Numerosi giornali ed esponenti politici americani cercarono subito di sfruttare la rivolta. L’iniziativa più importante vide la luce nel Congresso: si voleva presentare una risoluzione che concedesse ai ribelli cubani lo status di belligeranti come primo passo verso il riconoscimento della loro indipendenza.
Al presidente Grant l’idea piaceva, a Fish per nulla: secondo lui non era il caso che gli Stati Uniti si accollassero i problemi di Cuba e della Spagna quando già stavano affrontando tutte le difficoltà inerenti al periodo della Ricostruzione. Vi era inoltre un altro problema: mancava qualsiasi base giuridica di diritto internazionale per appoggiare i ribelli. Questo riconoscimento, se concesso, avrebbe compromesso i negoziati in corso con Londra già di per se piuttosto difficili. Se gli Inglesi erano stati accusati di aver concesso lo status di belligeranti ai ribelli del Sud, e pertanto di non essersi comportati correttamente, come potevano gli Stati Uniti giustificare le loro critiche agli Inglesi se poi a loro volta facevano lo stesso con i Cubani?
Questa argomentazione ebbe effetto su Sumner, il quale non desiderava intralci nel suo contenzioso con l’Inghilterra. Più difficile fu persuadere il presidente Grant che aveva preparato per il Congresso un messaggio a favore del riconoscimento dei ribelli cubani. Poco dopo anche lui si convinse delle buone ragioni di Fish e gli fu grato per avergli risparmiato un grave errore.
In soccorso a Fish giunse inaspettatamente la notizia che il presidente si era fatto coinvolgere in un curioso progetto di acquisto dell’isola di Santo Domingo. Il caso si trasformò presto in quello che sarebbe diventato l’episodio chiave della politica estera americana di quel periodo. Tanto per cambiare, il governo di Santo Domingo era sull’orlo della bancarotta: i notabili dell’isola decisero che per loro l’unica via d’uscita possibile per restare al potere era vendere l’isola agli Stati Uniti e, dopo l’annessione, intascare qualche lauta somma con l’alienazione di terreni pubblici.
Per portare a termine il progetto, i politici locali organizzarono a Washington una vera e propria opera di persuasione entrando in rapporti con Orville Babcock, segretario personale del presidente Grant. Tramite lui convinsero il presidente ad inviarlo a Santo Domingo per meglio accertarsi della faccenda. Babcock, al quale poco interessavano le questioni di protocollo, si ripresentò a Washington con in tasca un trattato di annessione negoziato da lui stesso: l’acquisto dell’intera isola per la somma di un milione e mezzo di dollari. Il punto dolente era che nessuno si era preso la briga di avvisare Hamilton Fish, il quale si infuriò a tal punto da minacciare le dimissioni.
La faccenda si concluse con la revisione dell’intera procedura da parte dei due governi e la conclusione di un trattato pienamente legale tramite i canali ufficiali, non con un semplice accordo col segretario particolare del Presidente. In questo modo Hamilton Fish mostrò la sua lealtà verso il presidente, anche se poi si celava dietro un altro motivo: se il presidente Grant avesse continuato ad occuparsi del trattato, avrebbe lasciato cadere la faccenda di Cuba rendendosi conto che non aveva senso irritare Madrid quando era ancora in corso l’annessione di Santo Domingo. E così avvenne.
La strana faccenda di Santo Domingo ebbe delle conseguenze non trascurabili sul futuro della carriera del Segretario di Stato. Questa infatti portò ad un insanabile frattura tra il presidente Grant ed il senatore Charles Sumner.
Grant intendeva infatti far passare al Senato il trattato con Santo Domingo, tanto che fece uso di tutta la sua influenza per convincere i più importanti membri di quell’assemblea. Tra questi il più influente era Sumner che di fronte al testo, in un intervento non privo di livore, disse che si sarebbe concluso in un “ballo di sangue”. Per via del suo passato abolizionista egli non voleva aggiungere all’Unione una repubblica di neri: il trattato di annessione non ottenne i 2/3 dei voti necessari e naufragò il 30 Giugno 1870.
Il presidente Grant si seccò moltissimo e finì col gettare tutto il discredito su Sumner che non lo perdonò mai, al punto di descriverlo come “uomo di colossale ignoranza”. In risposta Grant decise di sbarazzarsi di Motley, il ministro che Sumner aveva personalmente inviato alla Corte di San Giacomo ed escludere quest’ultimo dal Comitato Affari Esteri del Senato. Questa frattura fornì ad Hamilton Fish l’occasione che da tempo cercava: poter riprendere il dialogo con Londra senza timore delle reazioni del Senato. Come vedremo più avanti, tra il 1870-1871 a suo favore arrivò al potere in Inghilterra un nuovo esecutivo pronto a risolvere il contenzioso delle richieste di indennizzo da parte americana.
A Washington si era capito che in questi anni l’idea del Destino Manifesto non aveva più lo stesso richiamo. Sia il mondo degli affari che la comunità intellettuale si erano opposti all’annessione dell’isola di Santo Domingo e questo stesso clima lo avevano fiutato anche quei senatori favorevoli al trattato.
Ripresa e conclusione delle trattative con l’Inghilterra: Ricordiamo che in un contesto più vasto questo stesso periodo fu testimone della guerra franco-prussiana. Gli Inglesi temevano che il conflitto avrebbe potuto coinvolgere altri paesi, incluso il loro, e che i cantieri americani avrebbero potuto sfornare una quantità di navi da guerra da vendere ai loro nemici. Meglio dunque pensare di chiudere la vertenza con gli Stati Uniti, contando sul fatto che questi iniziavano a rendersi conto che i Canadesi, dopotutto, non avevano tanta voglia di farsi annettere. Le argomentazioni americane erano state del tutto controproducenti e non erano servite che ad infiammare il nazionalismo canadese e contribuire alla creazione di un’identità canadese.
Sconfitta la Francia a Sedan e caduto l’imperatore Napoleone III, Hamilton Fish nel 1871 colse l’occasione per riaprire le trattative con Londra: si era reso conto che entrambe le parti erano adesso bene intenzionate a lasciarsi alle spalle le ruggini del passato. Il trattato di Washington mise così fine ad ogni contenzioso, affidando al Kaiser l’arbitrato sulla disputa di frontiera delle isole San Juan, la risoluzione della controversia sul Pudget Sound riguardante i confini del Canada sul Pacifico e la contesa relativa ai diritti di pesca. Di conseguenza, nessuno negli Stati Uniti parlò più di annettere il Canada e la questione dei diritti di pesca si concluse con un nuovo trattato che riuscì a soddisfare ambo le parti.
In quanto alla risoluzione della faccenda della nave Alabama e degli altri contenziosi finanziari, l’intero pacchetto venne deferito ad un Tribunale internazionale che propose un insieme di regole utili a dettare la condotta degli Stati neutrali in tempo di guerra. Stabilite queste, fu deciso che sarebbero state applicate retroattivamente alla Guerra Civile. Il costo per gli Inglesi sarebbe stato più alto, ma le due parti ne uscirono comunque soddisfatte. La questione del blocco navale dei porti del Sud, le dispute e le trattative che ne seguirono portarono al condono di un certo numero di pratiche discutibili tanto che, nel 1914, quando l’Inghilterra decise il blocco contro la Germania si avvalse di tutti quei precedenti che risalivano ai giorni della Guerra Civile.
Hamilton Fish potè così finalmente raggiungere i suoi obbiettivi più importanti: era naufragato il piano di annessione di Santo Domingo e la questione canadese apparteneva ormai al passato. Restava da chiudere solo la rivolta di Cuba. Benché l’insurrezione si prolungasse e si fossero verificati alcuni spiacevoli incidenti, con la sua ritrovata autorità il Segretario di Stato riuscì a contenere le intemperanze degli interventisti e tenere gli Stati Uniti lontano da Cuba.
Il Segretario di Stato rifiutò il rischio di una guerra anche nel 1873 in seguito alla vicenda del vascello cubano Virginius, battente illegalmente bandiera americana: fu fermato mentre trasportava un carico di armi destinate ai ribelli cubani e le autorità spagnole fecero strage dell’equipaggio e dei passeggeri ritenendo fossero dei pirati. Vi furono 53 vittime, 8 delle quali americane. In quell’occasione gli Stati Uniti chiesero solo un indennizzo insieme alla restituzione della nave.
L’azione di Fish – come si è potuto vedere – mirava al compromesso e si fondava sulla moderazione, ovvero fare il possibile per ridurre le tensioni e gettare acqua sul fuoco. Il trattato di Washington fu il primo grande passo in direzione dell’amicizia tra Stati Uniti ed Inghilterra e servì come precedente per successivi arbitrati tra le due nazioni.
Al termine della Guerra Civile vi furono molte questioni che avrebbero potuto essere affrontate in modo irresponsabile e con gravi conseguenze. Fish ebbe la capacità di imporsi e dire di no quando necessario, fino a diventare per il presidente Grant quell’indispensabile elemento di equilibrio in un’amministrazione altrimenti tra le più erratiche ed imprevedibili della storia americana. Come si è visto, la storia diplomatica del periodo può essere in gran parte descritta in termini di personalità e di conflitti tra di loro.
Egli svolse il suo compito con tanto successo che una volta rieletto Grant nel 1872, il suo secondo mandato fu praticamente privo di eventi.
Un quadro degli Stati Uniti dopo la Guerra Civile: Il Paese uscì dalla Guerra di Secessione con tutte le carte in regola per diventare una grande potenza mondiale. La sua industria, già in forte espansione, era stata capace di sostenere lo sforzo di una guerra moderna. Alla fine del conflitto gli Stati Uniti possedevano anche la flotta più potente ed erano in grado di schierare un esercito pari a quello di qualsiasi potenza europea.
Questa forza non risultò evidente, in quanto la distanza geografica continuava a proteggere gli americani dalle baruffe europee e nessun vicino ne minacciava la sicurezza. Di conseguenza, una volta terminata la guerra l’esercito e la marina furono in gran parte smobilitati mentre il servizio diplomatico operava al minimo: nei dieci anni dal 1880 al 1890 gli Stati Uniti non ebbero ambasciatori all’estero e furono rappresentati da qualcosa come 25 incaricati d’affari. L’intero Dipartimento di Stato contava in tutto 60 persone.
Tranne per i fatti visti in precedenza, i rapporti con l’estero si ridussero alla gestione di questioni minori quali una controversia con l’Italia per il linciaggio di alcuni immigrati a New Orleans, problemi con l’immigrazione cinese, controversie con l’Inghilterra sulla navigazione nel mare di Bering, complicazioni con il Cile per una rissa scatenata a Valparaiso da alcuni marinai americani e ostracismo da parte tedesca riguardo l’importazione di prodotti derivati da carni suine. Pertanto, fino al 1890 la politica estera americana non ebbe scopi o indirizzi precisi. Ad assorbire il paese non furono tanto le questioni internazionali quanto i problemi interni, che andavano ancora affrontati e risolti e richiedevano l’impegno di notevoli energie.
Da questi anni di conflitto il Sud emerse devastato e con la sua economia a pezzi. Ad essere distrutta anche la sua classe dirigente. La sua forza lavoro al contrario ne uscì liberata, spazzando via ogni ostacolo all’affermarsi di un’economia capitalistica fondata sul lavoro libero. Rimase però aperta la questione dell’equilibrio dei poteri tra gli Stati ed il governo federale, tanto da restare virulenta fino all’epoca dello scontro sui diritti civili e durare ancora oggi.
Gli Stati Uniti avrebbero presto conosciuto la crescita economica più sostenuta del mondo. Da questa sarebbe derivato un significativo consolidamento politico ed economico, liberale e democratico nei suoi princìpi, sorto in un clima favorevole per l’impresa privata. La politica dei partiti sarebbe stata dominata soprattutto da questioni etniche, religiose, settoriali ed anche economiche.
La colonizzazione interna dopo il 1865 venne facilitata da progressi tecnologici quali l’introduzione dell’aratro d’acciaio, l’uso della recinzione di filo spinato e la diffusione della pistola a sei colpi. I bufali e gli Indiani, di conseguenza, furono in grado di sopravvivere solo in riserve protette.
Gli anni tra il 1877 ed il 1892 corrisposero al periodo di maggior crescita dell’industria americana: le fabbriche triplicarono la loro produzione, tanto che nel 1890 gli Stati Uniti emersero come la prima potenza industriale del mondo. Alla fine del secolo, il volume della produzione siderurgica, meccanica, petrolifera ed elettrica raggiunse il primato mondiale superando persino Inghilterra e Germania. In quanto alla rete ferroviaria, questa era più estesa di quella europea, incluse Inghilterra e Russia.
Dal punto di vista demografico la popolazione americana aveva superato quella di qualsiasi paese europeo ad eccezione della Russia. Tra il 1865 ed il 1910 il numero degli americani si era moltiplicato per tre e, se è vero che da un lato iniziava a diminuire il tasso di natalità per via dei progressi della medicina e dell’igiene pubblica, dall’altro si riduceva quello di mortalità.
Col passaggio dalla navigazione a vela a quella a vapore andò crescendo anche il numero degli immigrati, tanto che dopo il 1880 la legislazione sull’immigrazione si fece più complessa e restrittiva.
Riguardo i centri urbani, alla fine della Guerra Civile New York era la terza città per numero di abitanti e nei successivi trent’anni sarebbe passata da un milione a tre milioni e mezzo di abitanti; Filadelfia era più grande di Berlino e passò da 560mila a 1 milione e 300mila abitanti; Chicago era al secondo posto, passando da 100mila abitanti a 1 milione e 700mila.
Nel 1900 un americano su tre viveva in città ed oltre 40 centri urbani contavano più di 100mila abitanti: per fare un esempio, Minneapolis da 2.500 abitanti era passata a 200 mila e Los Angeles da 5.000 a 100 mila. A conoscere invece un graduale spopolamento furono le aree rurali.
Col progredire della Rivoluzione Industriale apparvero le prime reti tranviarie, New York e Boston si stavano dotando di una metropolitana e gradualmente si diffondeva l’illuminazione elettrica. Sorsero i primi grattacieli, nelle abitazioni si diffondeva l’uso del telefono e della macchina da cucire e nei negozi si potevano trovare alimenti in scatola. In quanto al cittadino, questo poteva adesso usufruire del fonografo, della macchina fotografica, di spettacoli di massa, cinematografo incluso. Appare l’automobile, nasce lo sport e si sviluppa l’istruzione. All’inizio del Novecento negli Stati Uniti venivano pubblicati 2.190 quotidiani, insieme a 15.813 settimanali, più che nel resto del mondo.
Quella americana era diventata l’economia più produttiva del mondo, il paese cresceva e progrediva mentre il suo governo si era fatto più forte, stabile e centralizzato. Unendo i due Oceani, gli Stati Uniti erano riusciti anche a crearsi una sorta di impero al loro interno.
La sirena dell’imperialismo: Alla caduta di Napoleone e nel periodo del Congresso di Vienna, vi erano molti angoli del mondo ancora sconosciuti all’Europa. Alla fine del secolo, attraverso l’opera di esploratori, missionari, commercianti, soldati, banchieri ed amministratori, la civiltà europea era entrata nelle aree più remote del mondo: il XIX secolo è stato infatti visto da molti come il grande periodo dell’espansione europea, già all’epoca descritta come imperialista.
Nel contesto politico europeo del XVIII secolo, i conflitti coloniali avevano avuto un ruolo importante. In seguito andarono gradualmente perdendo di importanza, tanto che nel 1852 il premier inglese Disraeli considerava le colonie come “dei macigni intorno al nostro collo”. Passati pochi anni emerse una nuova vocazione imperiale basata sulla competizione tra le nazioni tanto che, dopo il 1870, la civiltà europea si stava estendendo in tutto il mondo e numerosi imperi furono creati in Asia, Africa e nelle isole degli oceani. Alla fine del secolo una vastissima parte del mondo era passata sotto il controllo delle potenze europee.
Mentre queste ultime imponevano il loro dominio sulle aree occupate, negli stessi possedimenti coloniali si andavano lentamente sviluppando quei grandi ideali provenienti dall’Europa quali libertà, democrazia, nazionalismo, indipendenza e sovranità. In campo economico si sarebbe in seguito manifestata un’opposizione al capitalismo con la diffusione di idee socialiste.
Prima in Asia, poi in Medio Oriente ed in Africa questo processo fece penetrare e diffondere quell’insieme di princìpi figli della Guerra di Indipendenza americana, della Rivoluzione Francese e dei moti del 1848 sui quali si fondava l’Occidente: fu in questo modo che la storia dell’Europa finì con l’allargarsi per diventare parte di quella del mondo.
Nel tempo prese forma una civiltà globale sempre più interconnessa che negli anni si sarebbe affermata provocando grandi difficoltà e stravolgimenti, scontri con la modernità dei quali siamo ancora oggi testimoni e che continuano a creare non pochi problemi. A globalizzarsi furono anche i mercati, la produzione, il lavoro e l’economia. Se in futuro fosse scoppiata da qualche parte una crisi, questa si sarebbe inevitabilmente estesa al mondo intero ed avrebbe colpito tutti indistintamente.
Quelli dal 1870 al 1914 furono gli anni dell’imperialismo e delle rivalità coloniali, del dominio di un popolo su un altro e del diffondersi nel mondo di quella civiltà industriale e scientifica che si esprimeva in Europa. Al centro del mondo civile vi era il continente europeo con le sue grandi potenze, che nel tempo avrebbe portato i suoi possedimenti coloniali ad entrare nella civiltà moderna e industrializzarsi per avere accesso ad una vita diversa e migliore.
Avere delle colonie era un metro per misurare la grandezza di un Paese e consentirgli di far parte delle nazioni che contano. Francia ed Inghilterra possedevano da secoli le loro mentre le nuove nazioni che si andavano formando dopo il 1860, Germania, Italia, Giappone e a loro modo anche gli Stati Uniti, dovevano adesso partecipare anche loro a questa corsa.
La politica imperiale degli Stati Uniti: Nel corso di questo testo si è visto come su quali basi ideali, pratiche e teoriche si sono formati gli Stati Uniti. Si è anche vista la genesi della dottrina Monroe e come ebbe poco effetto sull’Europa, tanto da far dire al premier inglese George Canning nel 1823 che “la dottrina, se così la si può definire, è del tutto inaccettabile sia per il mio governo che per la Francia”. A dargli scarsa importanza furono gli stessi americani.
Una volta terminato il processo di colonizzazione dell’intero territorio americano, abbiamo visto come questa dottrina acquistò la sua D maiuscola portando il Paese ad agire in tutti i modi per fare delle Americhe la loro riserva esclusiva. Fino alla metà del XIX secolo l’isolazionismo americano fu prudente e realistico, gli Stati Uniti non avendo nulla da guadagnare intervenendo nelle questioni europee, al punto che il tenersene fuori servì indubbiamente ad aiutarne lo sviluppo e la crescita come territorio, nazione e istituzioni politiche.
Chiusa la fase della colonizzazione dell’Ovest, gli americani iniziarono a cercare altri sbocchi per le loro pulsioni espansionistiche. Le potenze europee erano impegnate a spartirsi l’Asia e l’Africa e procurarsi basi navali nel Pacifico. In un mondo di crescenti rivalità imperiali, gli americani si accorsero presto di poter avanzare e proteggere i loro interessi solo attraverso una politica aggressiva ed espansionistica: ne seguì una febbre nazionalista, la cui volontà era quella di imporre il potere degli Stati Uniti.
Questo movimento ricordava in un certo senso la dottrina del “Destino Manifesto”, dandogli però un alone scientifico basato sulla teoria della selezione naturale e della sopravvivenza del più forte. A sostenerlo, si aggiungeva anche l’idea del genio della razza anglosassone in voga a quei tempi e come espressa da John Fiske in un articolo del 1885. In questa direzione anche un libello pubblicato dal reverendo Josiah Strong nel quale descriveva il ramo americano della razza anglosassone come predestinato da Dio al trionfo nella competizione fra le razze.
Altro e più celebre teorico dell’espansionismo americano fu l’ammiraglio Alfred Thayer Mahan, che faceva del potere marittimo la base della grandezza di una nazione. Egli insisteva per l’acquisizione di basi navali oltremare, soprattutto nei Caraibi e nel Pacifico e la costruzione di una flotta mercantile insieme ad una potente marina da guerra per proteggerla. Queste sue teorie influenzarono numerosi politici americani, soprattutto Theodore Roosevelt che nel 1897 sarebbe poi diventato sottosegretario alla Marina.
Questo clima portò ad una costante crescita della marina tanto che per la fine del secolo, in termini di navi da guerra, gli Stati Uniti erano inferiori solo all’Inghilterra e alla Germania: queste tre potenze ebbero quindi una grande influenza nella formazione del mondo moderno. Unendosi nel 1917 alla guerra tra Gran Bretagna e Francia contro la Germania, gli Stati Uniti a seguito della sconfitta di quest’ultima emersero come la prima potenza mondiale.
Un importante passo in questa direzione fu l’acquisto dell’Alaska dalla Russia, considerata dagli Americani come via d’accesso al Canada ed “un dito puntato verso l’Asia” per via delle isole Aleutine che si estendevano in direzione del Giappone. Se per gli Stati Uniti l’Alaska era un ponte naturale verso l’Asia nord-orientale, le isole Hawaii erano per loro la principale base commerciale in direzione dell’Oriente. A mantenere instabili i rapporti con questo regno vi era una contesa a tre con Francia ed Inghilterra. Ciò non impedì ai colonizzatori americani di creare importanti piantagioni di zucchero e di ananas e controllare sia l’economia che il governo delle isole.
Con l’annessione nel 1867 dell’isola di Midway gli Stati Uniti passarono in vantaggio, tanto che nel 1875 un trattato commerciale fece virtualmente delle Hawaii un protettorato americano. Nel 1877 ottennero Pearl Harbour come stazione per rifornimento di carbone e futura base navale. Le isole Hawaii furono finalmente annesse quando un manipolo di coltivatori di zucchero e di uomini di affari di Honolulu, con l’aiuto di funzionari americani, fecero cadere la monarchia per poi fondare una repubblica ad immagine di quella americana. Alcuni anni dopo, nel 1891, al trono salì la regina Liliuokalani con l’idea di porre termine a questa influenza straniera. Due anni dopo, Appoggiati dall’equipaggio dell’incrociatore Boston, gli americani organizzarono una rivolta che si concluse con la deposizione della regina, l’instaurazione di un governo provvisorio ed un appello a Washington per l’annessione delle isole.
Entrato in carica all’inizio dello stesso anno, il presidente Grover Cleveland, indignato dal comportamento dei residenti americani, denunciò il trattato che nel frattempo era stato approvato dal Senato. Tornati al potere nel 1897, i Repubblicani decisero di negoziarne uno nuovo. Questo fu però bloccato dai Democratici che, insieme ai produttori di zucchero all’interno degli Stati Uniti, erano contrari ai richiami dell’imperialismo. Nell’estate dell’anno successivo, con la guerra contro la Spagna in corso, grazie all’espediente di una risoluzione congiunta del Congresso che richiedeva solo una maggioranza semplice, le isole Hawaii entrarono ufficialmente a far parte degli Stati Uniti d’America.
Nel 1878 gli Stati Uniti erano riusciti anche ad assicurarsi una base navale nelle isole Samoa ove presto emerse una rivalità con Gran Bretagna e Germania per il loro controllo. Nel 1899 venne firmato un accordo che consentì alla Germania di annettere le due isole maggiori, mentre agli americani sarebbe andato il resto dell’arcipelago.
Nel corso di questi anni era maturata una forma di orgoglio nazionale che spesso sfociava in prese di posizione sciovinistiche, tali da influenzare e segnare il punto di vista americano sulle questioni internazionali. All’interno della classe politica l’importanza dei mercati esteri cresceva sempre di più, così come l’idea che gli Stati Uniti potessero salvaguardare i loro interessi solo attraverso l’attuazione di una politica espansionistica. Dopo il 1890, se in passato non si voleva avere nulla a che fare con il resto del mondo, si era adesso pronti a creare dispute con tutti: a testimoniarlo, la crisi venezuelana del 1895.
Come appena visto, il presidente Cleveland non era favorevole ad un orientamento imperialista. Il 1896 fu però un anno di elezioni e quindi, per venire in aiuto al suo partito, egli andò alla ricerca di un argomento popolare intervenendo in una disputa tra Venezuela ed Inghilterra sui confini della Guyana Britannica. Il suo Segretario di Stato inviò a Londra una nota dal tono provocatorio con l’accusa di violare la Dottrina Monroe e richiedendo un arbitrato sulla contesa.
Il premier inglese Robert Gascoyne-Cecil, terzo marchese di Salisbury, rispose con un rifiuto e respinse la sua interpretazione della Dottrina Monroe. Grover Cleveland si rivolse allora al Congresso chiedendo la nomina di una commissione per determinare la linea di confine e, se necessario, mostrandosi pronto ad usare la forza.
Dato il clima che si respirava nel paese, il Congresso si mostrò pronto ad accogliere questa richiesta con molti dei suoi membri addirittura disposti a chiedere un intervento militare. L’Inghilterra, che in questa faccenda più di tanto non si sentiva coinvolta e si rendeva conto di trovarsi isolata in Europa, in quel momento era preoccupata soprattutto del graduale affermarsi del potere della Germania. Meglio dunque evitare un contenzioso con Washington.
A spostare ulteriormente l’attenzione di Londra da questa disputa, giunse dal Sudafrica la notizia dell’incursione di Jameson contro i Boeri del Transvaal: la cosa preoccupò gli inglesi, tanto più che venne seguita da una nota di congratulazioni inviata dal Kaiser Guglielmo II al presidente boero Kruger. La vicenda finì col chiudersi grazie ad un trattato con il Venezuela che rendeva effettivo l’arbitrato sulla disputa di confine: l’Inghilterra ottenne l’intero territorio conteso e la crisi si risolse in un riavvicinamento degli Stati Uniti con Londra.
Gli Stati Uniti dichiarano guerra alla Spagna: A sottolineare ulteriormente questo mutato atteggiamento americano di fronte al mondo giunse la guerra ispano-americana. Si trattava per gli Stati Uniti di affrancare il popolo di Cuba dal giogo spagnolo e affermare il proprio potere.
Si era visto in precedenza come era stata domata la ribellione del 1868. Nel 1895 vi fu un ulteriore tentativo di liberarsi dalla Spagna determinato dal Wilson-Gorman Tariff Act che, l’anno precedente, aveva chiuso il mercato americano alla produzione zuccheriera cubana. Nell’isola seguì un impoverimento tale da sfociare in un nuovo moto di ribellione.
Per via della crudeltà dei metodi repressivi impiegati dalla Spagna contro la popolazione cubana, le simpatie dell’opinione pubblica americana si orientarono presto a favore dei rivoltosi: a stimolare la richiesta di un intervento aveva contribuito anche una serie di articoli apparsi sui due quotidiani di New York che diffondevano notizie spesso esagerate e a volte anche inventate sulle atrocità commesse dagli Spagnoli. Sia il presidente Cleveland che il suo successore repubblicano William McKinley si mostrarono contrari ad intervenire per timore che un conflitto potesse minare quella prosperità seguita alla depressione del 1893. Della stessa opinione era anche la comunità di affari americana.
Le cose cambiarono improvvisamente per la pubblicazione di una lettera dell’ambasciatore spagnolo a Washington, nella quale veniva denigrato il presidente McKinley. Più importante ancora l’episodio dell’esplosione della corazzata Maine, ancorata nel porto dell’Avana. Le vittime furono 260 e benché le cause dell’incidente siano tutt’ora ignote, l’opinione pubblica americana puntò subito il dito contro la Spagna richiedendo un immediato intervento militare.
Dopo aver esitato qualche settimana, il presidente McKinley decise di agire non tanto per rispondere alle richieste della nazione, quanto piuttosto perché stava perdendo la fiducia nelle capacità della Spagna di porre fine all’insurrezione. Non senza esitazioni Madrid accettò la richiesta di un armistizio immediato e lo smantellamento dei campi di concentramento. Rifiutò invece la richiesta di concedere l’indipendenza a Cuba.
Di conseguenza, l’11 Aprile 1898 il presidente americano si rivolse al Congresso per chiedere l’entrata in guerra. Nove giorni dopo, in una risoluzione congiunta e a grande maggioranza, il Congresso riconosceva l’indipendenza cubana ed autorizzava la Casa Bianca ad usare la forza per cacciare gli spagnoli dall’isola. Venne approvato all’unanimità anche l’emendamento Teller che si opponeva all’annessione di Cuba, esprimendo quel sentimento idealistico che aveva portato al conflitto.
Nell’area dei Caraibi la grande ambizione degli Stati Uniti era costruire, proteggere e controllare un canale che, passando attraverso l’America centrale, servisse ad unire l’Oceano Atlantico al Pacifico.
Un trattato del 1851 sanciva che un canale costruito dagli Stati Uniti o dall’Inghilterra doveva essere posto sotto il controllo delle due nazioni e non venire fortificato.
In Africa, la guerra boera che si era conclusa nel 1902 aveva evidenziato l’isolamento di Londra: quest’ultima, di conseguenza, desiderava conservare l’amicizia con gli Stati Uniti e a seguito del trattato Hay-Pauncefote del 1901 accettò sia il controllo americano del futuro canale che la sua fortificazione.
A partire da questo momento, la sfida successiva per gli Stati Uniti fu quella di scegliere il luogo più adatto: il canale avrebbe attraversato il Nicaragua oppure l’istmo di Panama?
Dopo aver inizialmente puntato sul primo, il Congresso americano decise infine per Panama, che però apparteneva alla Colombia e dalla quale una società francese con a capo Ferdinand de Lesseps, aveva acquistato la concessione per la realizzazione di un canale. Dopo 8 anni di scavi, tra malattie e problemi di lavoro, la società fallì. Nel 1894 una seconda società francese ne rilevò la franchigia essenzialmente per tenere in vita il progetto.
Passato qualche tempo, la Francia offrì agli Stati Uniti i diritti sul progetto. La proposta fu accettata ma la Colombia poi si oppose alle condizioni americane. Panama, che da tempo voleva affrancarsi dal giogo colombiano, decise di ribellarsi. Il presidente Roosevelt preferì tenersi distante da questa insurrezione pur informando i panamensi che, se avessero avuto bisogno di un amico, avrebbero potuto contare sugli Stati Uniti.
Seguendo il principio del “non si sa mai”, nel 1903 egli decise di inviare un incrociatore al fine di impedire un intervento colombiano. Due settimane dopo l’indipendenza di Panama, seguì il trattato Hay-Bunau-Varilla del 18 Novembre 1903 che concesse agli americani la piena sovranità su quella striscia di terra necessaria per costruire il canale. I lavori ebbero inizio nel 1907 e la prima nave attraversò il canale nell’Agosto del 1914. L’andamento di tutta questa faccenda lese non poco l’immagine degli Stati Uniti in America Latina, cosa che a Roosevelt poco importava: a preoccuparlo era soprattutto il pensiero di possibili interventi nell’area da parte delle potenze europee.
Nel 1902 un blocco anglo-tedesco-italiano al Venezuela dovuto a questioni finanziarie, suscitò le preoccupazioni di Washington che richiese un arbitrato internazionale. Quando la Repubblica Dominicana si trovò nell’impossibilità di pagare il suo debito e venne minacciata da un intervento chiesto dagli azionisti europei, il presidente Roosevelt decise di assumere un ruolo inedito: quello di poliziotto internazionale per tenere lontane dal continente americano le nazioni europee.
Nel 1904 venne reso pubblico un corollario alla Dottrina Monroe e queste furono le parole da lui pronunciate davanti al Congresso: “Stante la dottrina Monroe, comportamenti cronici sbagliati nel continente americano richiedono l'intervento di polizia internazionale da parte di una nazione civilizzata”. Non era dunque compito delle potenze europee intervenire: sarebbe toccato agli Stati Uniti vegliare affinché non fossero costrette loro a farlo per via del comportamento delle nazioni americane. In poche parole, nessuno Stato europeo sarebbe potuto intervenire in America in quanto spettava agli americani stessi farlo in difesa degli investimenti del mondo civile. Da quel momento, gli Stati Uniti avrebbero tenuto sotto stretta osservazione l’intero continente americano.
Nel 1908 Roosevelt scelse come successore l’avvocato William Howard Taft, che mai avrebbe voluto diventare presidente. Malgrado ciò, sconfisse senza difficoltà il suo rivale William Jennings Bryan. Lui stesso non intendeva avere a che fare con disordini nell’area caraibica tali da provocare interventi europei. Verso l’America Latina la politica di Taft era dettata da ragioni non unicamente strategiche, ma anche economiche: incoraggiò gli investimenti americani e si adoperò affinché i capitali europei venissero sostituiti da quelli statunitensi. In poche parole, meno rischi con l’Europa e maggiori profitti per le banche americane, la cosiddetta “diplomazia del dollaro”.
Nel 1909 istituti di credito americani presero possesso delle finanze del Nicaragua con il consenso politico locale. L’anno successivo, allo scoppio di una rivolta contro il governo, il presidente Taft fu costretto ad un intervento militare. Entrato in carica nel 1913, il presidente Woodrow Wilson decise di cestinare sia la politica del “Grosso Bastone” che quella della “diplomazia del dollaro”. Queste le sue parole riguardo l’agire degli Stati Uniti che “non avrebbero mai più tentato di annettersi un metro di territorio con la forza”. In parallelo, condannò anche la pratica di premere per concessioni economiche in America Latina.
A dettare la sua azione politica nella regione era anche quel lato missionario caratteristico della sua personalità che lo spingeva a combattere la povertà ed aiutare la gente a darsi quella stabilità che solo un governo democratico poteva garantire. Malgrado le sue buone intenzioni, Wilson non mancava di senso pratico ed era intenzionato a difendere gli interessi americani: fu così che di fatto intervenne in quei paesi ben più di quanto non lo avessero fatto i suoi predecessori.
Conscio dell’importanza del canale di Panama per la sicurezza nazionale, egli decise che non era possibile per gli Stati Uniti tollerare nessun genere di instabilità politica nell’area caraibica. Da qui la sua azione in Nicaragua e Santo Domingo. In Messico la rivoluzione iniziata da Madero rischiava di destabilizzare il paese soprattutto quando a lui si unirono Pancho Villa e Emiliano Zapata. Nel 1911 fu poi deposto il presidente Porfirio Diaz, la cui amministrazione si distinse per inettitudine, corruzione e divisioni interne. Di fronte all’estendersi della rivolta quest’ultimo venne assassinato dal generale Victoriano Huerta. Il succedersi di tali eventi condusse il presidente Wilson sull’orlo di una guerra. A distrarlo, gli attacchi contro le navi alleate condotti dai sottomarini tedeschi che all’inizio del 1917 lo costrinsero a ritirare le truppe comandate dal generale Pershing e poco più tardi ad entrare in guerra contro la Germania.
Conclusione: Finora abbiamo seguito quelli che possono definirsi gli indirizzi politici più importanti seguiti dagli Stati Uniti e sopravvissuti fino al XX secolo. Con l’ingresso nel nuovo secolo questi ultimi erano entrati in possesso di una vasta sfera di influenza in America Latina e nei Caraibi ed esercitavano una politica attiva in Asia tramite i loro presidi economici e strategici nel Pacifico. Avevano varato una flotta militare potente ed erano assurti al rango di grande potenza mondiale.
Nel 1904, il presidente Theodore Roosevelt aggiunse un corollario che attribuiva agli Stati Uniti il diritto ed il potere di controllare ogni interferenza da parte di governi stranieri negli affari dell’emisfero occidentale, oltre che assicurarsi che venissero governati da esecutivi graditi a Washington.
Era la politica del cosiddetto “Grosso Bastone” (Big Stick), poi ripudiata dal memorandum Clark, redatto il 17 Dicembre 1928 da J. Reuben Clark, Sottosegretario di Stato del presidente Calvin Coolidge riguardante in America Latina l'uso della forza militare da parte degli Stati Uniti.
Ad essere più precisi, la teoria del “Grosso Bastone” indicava l’azione estera perseguita dal presidente Roosevelt nel corso dei suoi due mandati dal 1901 al 1909. Tale politica, spesso accomunata al concetto più ampio di “diplomazia delle cannoniere”, era caratterizzata da negoziati ai quali si affiancava la minaccia del “grosso bastone”, ossia di un intervento militare. Fortemente pragmatico e basato sul principio della ragion di Stato, il corso politico rooseveltiano fu l'espressione mediata dei circoli espansionistici americani.
Rimasto segreto fino al 1930, il memorandum Clark rigettava invece l’idea che il corollario Roosevelt si basasse sulla dottrina Monroe: piuttosto li separava e li distingueva. Indipendentemente da quest’ultima il memorandum sosteneva che fosse diritto degli Stati Uniti intervenire nelle questioni americane. La Dottrina Monroe si riferiva invece a situazioni che vedevano coinvolte le nazioni europee e non riguardava le dispute tra Washington e gli Stati dell’America Latina.
Gli Stati Uniti al cospetto dell’Asia: Se da un lato è comprensibile l’importanza del sentimento isolazionista riguardo i rapporti con l’Europa, dall’altro è difficile non vedere come fossero diverse le cose con l’Asia. Nel corso del XIX secolo infatti, anche quando gli Americani erano meno disposti verso l’Europa, non pochi furono quelli pronti ad interessarsi e farsi coinvolgere nelle faccende orientali. Spesso si trattava di quelle stesse persone che rifiutavano qualsiasi approccio con le potenze europee.
A seguito della guerra ispano-americana, gli Stati Uniti iniziarono ad emergere come potenza mondiale e dopo il 1898 si mostrarono più disposti a prendere parte alle questioni internazionali. Mentre continuavano a mostrare poco interesse per l’Europa, si trovarono invece ben più coinvolti nelle vicende dell’America Latina e dell’Estremo Oriente.
A seguire con più impegno le questioni europee fu il presidente Theodore Roosevelt, che si rendeva conto di quale pericolo potessero rappresentare per la pace mondiale. Non a caso esercitò la sua azione di mediatore nella guerra russo-giapponese, intervenne nella crisi marocchina nel 1905 e svolse un ruolo importante nel riunire la seconda conferenza dell’Aia nel 1907. Le potenze europee sapevano però che agli americani questo suo protagonismo non andava a genio e che il Senato, a più riprese, aveva manifestato il suo intento di non cambiare la tradizionale politica estera del paese.
A crescere fu invece l’interesse americano per l’Estremo Oriente e soprattutto per la Cina: il mondo degli affari vedeva in questo paese un potenziale mercato dalle solide prospettive di crescita ed era allarmato dalla corsa delle potenze europee per garantirsi concessioni e ritagliarsi sfere di influenza esclusive.
Nel 1899, John Hay, Segretario di Stato del presidente McKinley, fece pressioni sulle potenze europee per ottenere che le opportunità fossero distribuite equamente a tutte le nazioni. Quando nel 1900 scoppiò in Cina la rivolta nazionalista dei Boxer, pur indicando che non avrebbe abbandonato la sua linea di non interferenza, Washington inviò un corpo di 2.500 uomini per contribuire a riportare l’ordine: Hay temeva che gli europei avrebbero potuto sfruttare questa occasione per aumentare la loro influenza nel paese.
Il Segretario inviò una lettera nella quale elaborava la politica della cosiddetta “porta aperta”, il cui scopo era conservare l’integrità territoriale cinese ed assicurare ad ogni nazione le stesse opportunità di commercio su tutto il suo territorio. Negli Stati Uniti la pubblicazione di questo testo fu accolta con orgoglio pur non essendovi nessuno disposto all’uso della forza per farlo rispettare: benché questo principio restasse alla base della politica americana in Estremo Oriente, gli Stati Uniti non si mostrarono disponibili ad attuarlo.
Se l’impero cinese non venne fatto a fette, non fu tanto grazie alla politica della “porta aperta”, quanto piuttosto all’incapacità delle potenze europee di accordarsi sulla spartizione del bottino di guerra.
Penetrazione occidentale in Cina: Intorno al 1840, nella loro corsa ad espandersi le potenze europee iniziarono a mettere gli occhi sulla Cina e farsi largo al suo interno. In quegli anni il paese era retto dalla dinastia Manchu ed impegnato a fondo nell’affrontare gravi problemi interni. Benché sempre in prima fila nell’estorcere concessioni, gli europei appoggiavano l’impero per far fronte alle opposizioni interne, tenere in piedi il Paese, firmare trattati e rendere legittime le loro pretese.
La prima fase dei rapporti con l’Occidente si aprì per la Cina nel 1841. Se da un lato gli europei bramavano acquistare prodotti cinesi, questi ultimi non erano altrettanto interessati a spendere per quelli europei. Il commercio tra i due mondi era dunque difficile perché sostanzialmente a senso unico. Vi era però un solo prodotto per il quale esisteva in Cina una forte domanda: l’oppio.
Quando il governo cinese tentò di controllarne l’importazione, l’Inghilterra dichiarò guerra. L’impero ne uscì sconfitto, l’oppio entrò in abbondanza e la faccenda si concluse nell’Agosto del 1842 con il trattato di Nanchino. Passati alcuni anni, nel 1857 Francia ed Inghilterra aprirono insieme un altro conflitto con la Cina per costringerla ad accogliere i loro diplomatici e trattare con i loro mercanti e uomini d’affari. E’ nel corso di questa contesa che fu saccheggiato ed incendiato lo splendido Palazzo d’Estate, umiliazione che i Cinesi avvertono ancora oggi. Anche questa volta alle ostilità seguì un trattato, quello di Tientsin del Giugno 1858. Ulteriori trattati furono successivamente firmati sia con altre potenze europee che con gli Stati Uniti.
Nacque in questo modo il cosiddetto “sistema dei Trattati”, che imponeva alla Cina una serie di restrizioni e concedeva invece agli stranieri un insieme di diritti. Da lì, successivamente, la corsa della Russia e delle potenze europee ad estendere la loro presenza in tutti quei territori confinanti con l’impero che, pur non facendone parte, ne erano però tributari, mantenendovi anche i maggiori rapporti politici e culturali. Riguardo la Cina, gli Stati Uniti attuarono la politica della “Porta Aperta”.
In questo periodo seguì da parte americana anche l’annessione delle Filippine e tutti questi eventi si svolsero in un tempo nel quale era operativa la chiusura di Washington verso l’Europa. Alcuni anni più tardi, nel 1919, merita di essere ricordato l’aspro dibattito nel Senato sulla penisola dello Shantung e come la presunta svendita della Cina da parte del presidente Wilson avesse avuto sulla scena interna conseguenze altrettanto importanti e difficili quanto le accese discussioni sulla Società delle Nazioni.
La grande attrazione: Questi due precedenti paragrafi sono serviti a mostrare quanto, nel corso della storia diplomatica americana, fosse diffusa l’attrazione verso l’Asia e come rimanesse preponderante l’idea del rifiuto dell’Europa. Vi era una vera e propria spinta di dare precedenza all’Asia, spinta che Thoreau espresse molto bene affermando che “mi dirigo verso Oriente solo se costretto, ma verso Occidente vado in piena libertà. Devo muovermi in direzione dell’Oregon e non dell’Europa”.
Concluderò dicendo che all’inizio degli anni Trenta il Segretario di Stato Henry Stimson e il suo successore Cordell Hull si preoccuparono molto più delle azioni giapponesi in Asia che della salita al potere di Hitler in Germania. Aggiungo inoltre che alla fine degli anni ‘40 non era difficile trovare membri del Congresso pronti a venire in soccorso a Chiang Kai-shek e mostrarsi allo stesso tempo contrari al piano Marshall, alla Nato e ad ogni altra forma di assistenza all’Europa.
Il caso del Giappone: I primi europei arrivarono in Giappone nel 1542 e per circa un secolo i contatti furono numerosi, in quanto i giapponesi si mostrarono disponibili a commerciare con gli stranieri ed imparare da loro. Alcuni si recarono nelle Indie Olandesi e persino in Europa. Le cose poi cambiarono e poco dopo il 1600 il governo giapponese iniziò una campagna contro i cristiani. Nel 1624 furono espulsi gli Spagnoli, nel 1639 i Portoghesi e nel 1640 tutti gli europei, salvo un manipolo di commercianti olandesi che vennero confinati sotto stretta sorveglianza a Nagasaki. Da quel momento e fino al 1853, questi pochi olandesi rappresentarono l’unico tramite con l’Occidente. Da allora, l’arrivo degli occidentali finì con l’aprire il paese ben più di quello che chiunque si sarebbe aspettato.
A tal proposito va ricordata la missione navale del commodoro Perry nella baia di Yedo del 1853, il suo sbarco e la richiesta tutto sommato perentoria affinché il governo giapponese si aprisse a rapporti commerciali con gli Stati Uniti e le altre potenze europee. I giapponesi così fecero e nel 1867 scoppiò una rivoluzione le cui conseguenze più importanti furono una celere occidentalizzazione del Paese e delle sue istituzioni.
Il Giappone si era aperto all’Occidente per adottarne scienza, tecnologia, princìpi di organizzazione e usi militari con l’obbiettivo di modernizzarsi sia dal punto di vista industriale che finanziario: non si trattava solo di ammirazione, ma anche e soprattutto un modo per difendersi contro la penetrazione dei paesi occidentali e l’ambizione di diventare a sua volta una grande potenza.
Nel 1854 il commercio estero del Giappone era praticamente nullo. Verso fine secolo era salito a 200 milioni di dollari l’anno e la popolazione era aumentata dai 33 milioni del 1872 ai 46 milioni del 1902. Come nel caso dell’Inghilterra, le isole del Giappone si trovarono costrette a dipendere dai commerci internazionali per permettere alla loro crescente popolazione quel tipo di vita al quale aspirava.
Questo ingresso del Giappone nella modernità fu il più notevole esempio di trasformazione mai realizzato da un popolo in un tempo così breve.
La guerra russo-giapponese e la mediazione americana: Nel 1895 il Giappone condusse una guerra vittoriosa contro la Cina, i cui frutti però vennero colti dalla Russia. Quest’ultimo, in risposta, firmò nel 1902 un trattato con l’Inghilterra che, a seguito dell’incidente di Fashoda e della guerra boera, si era trovata diplomaticamente isolata ed in continua competizione con la Russia. L’alleanza durò vent’anni, in quanto russi e giapponesi stavano cercando di espandersi a spese del decadente impero cinese: per tutte e tre queste nazioni l’oggetto della disputa era la Manciuria che storicamente apparteneva alla Cina.
Senza prendersi il disturbo di una dichiarazione di guerra, il Giappone condusse un attacco via mare alle installazioni russe di Port Arthur, che cadde nel Gennaio del 1905. I due eserciti si scontrarono poi in Manciuria nella battaglia di Mukden, la più grande mai combattuta fino a quel momento con 624 mila uomini schierati sul campo. Un gran numero di osservatori militari si recarono sul posto anche per capire come si sarebbe potuta svolgere una successiva guerra in Europa.
I Russi furono sconfitti e nel Maggio dello stesso anno la loro flotta baltica, inviata per ristabilire la situazione, fu annientata nella battaglia di Tsushima. Questo disastro militare ebbe come causa immediata la rivoluzione russa del 1905 e fece del Giappone una grande potenza.
All’inizio del conflitto le simpatie degli Stati Uniti erano tutte per il Giappone. Di fronte ai suoi notevoli successi militari gli americani cambiarono però presto idea. Lo stesso presidente Roosevelt non era certo entusiasta di un predominio del Giappone in Asia orientale in quanto era preferibile mantenere una qualche forma di equilibrio tra russi e giapponesi.
Tokyo, in quel momento sull’orlo della bancarotta, si rese disponibile a chiedere la pace e si rivolse a Roosevelt offrendogli di agire come mediatore. Il presidente americano accettò e diede il suo contributo nel negoziare un trattato di pace firmato a Portsmouth nel Settembre 1905. Quest’ultimo incassò il premio Nobel per la Pace, mentre ai giapponesi andò il controllo della Corea, parte della Manciuria meridionale e l’annessione di una porzione dell’isola di Sakhalin. La crescita della potenza e delle ambizioni del Giappone ebbero come conseguenza un graduale deterioramento dei rapporti con Washington.
Conseguenze del conflitto sugli andamenti successivi: Anche se con il testo c’entra poco, credo sia di qualche interesse aprire una parentesi per illustrare l’enorme importanza dello scontro tra Russia e Giappone di fronte a quelli che furono i più importanti eventi degli anni successivi e anche di tutto il XX secolo.
Questa, dopo la guerra franco-prussiana del 1870, fu la prima guerra tra grandi potenze. Fu anche la prima tra paesi industrializzati, così come fu la prima tra nazioni occidentalizzate sorta dalla contesa per il controllo di un paese arretrato. In questo caso, l’espansionismo russo verso Oriente in cerca di uno sbocco sul Pacifico aveva creato tensioni con il Giappone per il controllo della Manciuria e della Corea.
Si è trattato inoltre della prima volta nei tempi moderni che una nazione asiatica aveva sconfitto una potenza occidentale: in meno di mezzo secolo un paese asiatico, in questo caso il Giappone, era riuscito a dimostrare che fosse possibile raggiungere il livello tecnologico e militare delle nazioni più avanzate, imparando a condurre con altrettanta abilità e forza lo stesso gioco degli europei. Questo conflitto distrusse il mito della supremazia militare e tecnologica dell’Occidente.
Le conseguenze furono le seguenti: azzoppato in Asia, l’impero zarista dovette spostare la sua attenzione verso l’area balcanica per diventarne poi protagonista attivo. La cosa ebbe un ruolo nel far nascere in Europa una serie di crisi internazionali che sfociarono in seguito nel primo conflitto mondiale.
L’esito catastrofico di questa guerra nel Pacifico portò ad un indebolimento generale del regime zarista sia in termini militari che di prestigio. Dall’incompetenza del governo e dalla sua disorganizzazione scaturirono un serie di proteste che condussero alla rivoluzione del 1905, preludio della grande rivoluzione russa del 1917 che vide i bolscevichi salire al potere e poi nel 1922 la nascita dell’Unione Sovietica.
La notizia di questa straordinaria vittoria fece aprire gli occhi ai soggetti delle potenze imperiali sul fatto che un popolo arretrato, umiliato e preso a cannonate dagli europei era riuscito in meno di 50 anni a diventare una grande potenza, uguagliandoli in termini di sviluppo industriale, tecnologico e militare.
A partire da questo precedente, ogni popolo soggetto al dominio dell’Occidente d’ora in poi avrebbe potuto trovare un proprio ruolo nella Storia. Era però necessario aprirsi alla modernità, investire in educazione tecnica, ricerca scientifica, progresso tecnologico, organizzazione industriale e burocratica per adottare lo stesso processo di sviluppo dei popoli bianchi, adeguandolo però alla sua cultura ed alle sue tradizioni.
Nel 1905, nel 1908 e nel 1911 ebbero inizio rispettivamente in Persia, Turchia e Cina delle rivoluzioni nazionaliste. Ne furono contagiate in seguito India ed Indonesia, come successivamente i Paesi del Medio Oriente e dell’Africa. Dopo la Prima Guerra Mondiale questo processo andò intensificandosi in Asia come altrove e fu determinante nel porre fine alla supremazia dell’Europa, al tramonto degli imperi ed avviare quel processo di decolonizzazione che avrebbe cambiato le cose a tal punto che il mondo del XX secolo sarebbe stato ben diverso da quello precedente.
A seguito della Seconda Guerra Mondiale, con la sconfitta della Germania e l’esplosione nell’Agosto del 1945 di due ordigni nucleari che portarono il Giappone alla resa, gli Stati Uniti sarebbero emersi come la più grande potenza mondiale. Il mondo entrava in una nuova era, quella nucleare, che avrebbe portato con sé anche un cambiamento nel modo di fare politica estera.
Riepilogo: Il mondo del XIX secolo, come abbiamo visto, era incentrato sull’Europa e vedeva gli Americani in gran parte indifferenti alle questioni di politica estera.
Ad attrarre la loro attenzione erano soprattutto i problemi interni. Erano fiduciosi che se la sarebbero potuta perfettamente cavare da soli nel mondo: si trattava di una società autosufficiente che voleva evitare di farsi coinvolgere nelle complicazioni estere.
Tra le ragioni di questo isolazionismo il fatto che gli Stati Uniti fossero separati dall’Europa da un oceano vasto, pericoloso e difficile da attraversare che li proteggeva facendo da barriera. Consideravano la sicurezza nazionale come garantita per via di questo ostacolo, indipendentemente da tutto ciò che poteva verificarsi in qualsiasi altra parte del mondo.
Da esplorare, colonizzare e sviluppare vi era un continente dalle vastissime dimensioni. Questo interesse per l’Ovest avrebbe per anni assorbito verso l’interno le attenzioni e le energie degli americani, contribuendo a formare una tradizione continentale.
Vero è che questo allargamento verso Ovest avrebbe coinvolto gli Stati Uniti in diverse dispute e scontri con Gran Bretagna, Spagna e Messico. Vi era dunque un agire in politica estera il cui scopo era di tenere le potenze europee lontano da territori che gli americani ambivano per se stessi, cosa che non faceva che rafforzare questa tradizione.
Il XIX secolo fu un periodo di crescita per gli Stati Uniti, al quale corrispose in Europa un’assenza di guerre su larga scala che va dalla caduta di Napoleone alla Prima Guerra Mondiale. A parte gli anni tra il 1850 ed il 1870, si è trattato solo di guerre brevi e decisive che non hanno coinvolto tutte le potenze europee e non si sono mai allargate oltre il continente: vi era in quegli anni un equilibrio di potere in Europa che impediva a qualsiasi nazione di prevaricare le altre senza venir frenata. Questa situazione di equilibrio fece sì che gli Stati Uniti potessero espandersi e svilupparsi senza preoccuparsi di eventuali ingerenze europee.
La sola minaccia alla loro sicurezza era la potenza della flotta inglese, l’unica capace di attraversare l’Atlantico come si è visto nel caso della guerra del 1812. Riguardo i rapporti con gli Stati Uniti, gli Inglesi avevano assunto una posizione in alcuni casi sostanzialmente favorevole od altrimenti neutrale: un’ America libera ed indipendente infatti avrebbe meglio servito i loro interessi economici e commerciali.
Per via di questi fattori positivi, di fronte al mondo l’atteggiamento degli americani era quello di poter credere nella pace e nel progresso e pensare che il futuro sarebbe stato migliore del presente. In tutto ciò ebbero un ruolo importante anche quelle emozioni che avevano le loro radici in quella che era l’esperienza americana.
L’America era una colonia che aveva deciso di ribellarsi alla monarchia inglese per difendere le sue libertà ed ottenerne l’indipendenza. Vi fu dunque, sin dall’inizio, un ripudio dell’Europa che fece della sua Dichiarazione di Indipendenza qualcosa di più di un semplice distacco politico dall’Inghilterra: incarnò un atto di ripudio di tutti quegli aspetti della società europea del XVIII secolo non graditi agli americani e dei quali diffidavano.
Sin dai giorni dei Padri Pellegrini, Dio aveva messo loro a disposizione un continente incontaminato nel quale avrebbero potuto costruire una società nuova in un mondo nuovo, libera dai legami col passato. Ben meglio dunque evitare di farsi coinvolgere nei giochi politici della vecchia Europa, che poco o nulla avevano a che vedere con la vita quotidiana di comunità pure e oneste. L’ideale puritano della “città sulla collina” comportava di riflesso il troncare i legami con il vecchio mondo per liberarsi dai suoi intrighi: questa loro nuova nazione era “l’ultima speranza di Dio sulla Terra”.
Fino alla metà del XIX secolo i rapporti degli Stati Uniti con l’Europa furono caratterizzati da un prudente e realista isolazionismo. Essi infatti non avevano nulla da guadagnare nell’intervenire nelle questioni d’Oltreoceano: tenersene distanti contribuì senza dubbio alla crescita e allo sviluppo degli Stati Uniti non solo come nazione, ma anche come territorio e istituzioni politiche.
Nel corso del testo ci siamo anche soffermati su alcune idee che hanno avuto un peso importante nell’evoluzione della politica estera americana, soprattutto riguardo i rapporti con l’emisfero occidentale e le azioni delle potenze europee. Il primo documento è la cosiddetta “Dottrina Monroe” del 2 Dicembre 1823. Questa dichiarazione è un indirizzo di politica da assumere verso le nuove nazioni dell’America Latina.
In breve, ogni tentativo da parte di potenze europee di interferire negli affari delle loro vecchie colonie nell’emisfero occidentale non sarebbe stato tollerato dagli Stati Uniti: “Le Americhe non erano più da considerarsi come oggetto di ulteriore colonizzazione da parte di qualsiasi potere europeo”. Come si è visto, questo documento derivava la sua efficacia dalla riluttanza dell’Inghilterra di vedere la sua posizione nel nuovo mondo minacciata da altre potenze rivali.
A questa dottrina venne aggiunto nel 1904 un corollario da parte del presidente Theodore Roosevelt. Questi dichiarava che gli Stati Uniti avevano il pieno diritto e l’autorità di controllare qualsiasi interferenza da parte di governi esteri negli affari dell’America Latina: necessario era anche assicurarsi che in queste nuove nazioni fossero mantenuti governi graditi alle amministrazioni americane. Questa è conosciuta anche come la politica del “Grande Bastone”. Venne ripudiata nel 1928 dal cosiddetto memorandum Clark.
La dottrina Monroe, come ricorderete, è stata per lo più ignorata sino alla fine del XIX secolo e non indica certo, come generalmente pensato dalle nostre parti, una volontà isolazionista da parte dei governi americani. E’ comunque rimasta un elemento fondamentale dell’azione politica di Washington.
Abbiamo anche visto come nel 1845 fu coniata l’espressione “Destino manifesto”. Serviva ad indicare un diritto di origine divina che attribuiva agli Stati Uniti la facoltà di “estendersi sul continente concessa dalla Provvidenza per il libero sviluppo ed il moltiplicarsi dei nostri milioni (di abitanti)”. Di questo concetto è poi stato fatto uso per giustificare buona parte delle successive acquisizioni territoriali americane.
Con questo pensiamo avervi offerto l’opportunità di meglio capire i contesti nei quali si sono sviluppate quelle linee che hanno poi caratterizzato la politica estera degli Stati Uniti.
Conclusione: In questo nuovo ordine mondiale che ha fatto seguito alla caduta del Muro di Berlino, alla fine dell’ideologia comunista ed al tramonto dell’Unione Sovietica, un dibattito sulla natura della politica estera americana non può dirsi solo una curiosità od un interesse esclusivamente antiquario. Quanto vi è oggi di isolazionismo e quanto di un ritorno alle tradizioni del passato?
L’isolazionismo americano non si era fondato solo sull’esaltazione del sentimento nazionale e sul ripudio dell’Europa. Nel XX secolo quest’ultimo deriva soprattutto da una sincera volontà di concentrarsi sulle riforme interne e di porre rimedio ai guasti dell’economia e ai crescenti problemi sociali. Il timore era che farsi assorbire e coinvolgere nei giochi di potenze esterne potesse mettere fine alla realizzazione di questi obbiettivi: a risentirne sarebbero stati quei tentativi generosi e quegli slanci di riforma ai quali, in tempi di traversie interne e grave scontento, non pochi guardavano per trarvi ispirazione.
Limitandoci al secolo scorso, quello a noi più vicino, vorrei ricordare ad esempio la dichiarazione di neutralità fatta dal presidente Wilson nell’Agosto 1914: per gli Stati Uniti la guerra in Europa era un conflitto “con cui non abbiamo nulla a che fare e le cui cause non ci possono toccare”. Neutralità dunque, ma non imparzialità. In politica interna il presidente, critico verso il sistema politico americano, si era impegnato a portare avanti un’azione di riforme sociali ed economiche implementando la politica battezzata della “nuova libertà”.
Il suo scopo era quello di portare avanti un programma progressista per attirare il consenso dei sindacati, dei riformisti e degli agricoltori. Con un’imposta sui redditi si impegnò a realizzare una politica fiscale più equa, lottò per abbassare i dazi doganali, riformare sia il sistema bancario che monetario e combattere i monopoli. Combatté anche la pratica del lavoro minorile e concesse ai ferrovieri la giornata lavorativa di otto ore.
I problemi creati dalla guerra in Europa spensero l’impulso verso queste riforme economiche e sociali: sarebbe stato successivamente ereditato da una nuova generazione di riformisti che se li sarebbero trovati di fronte all’epoca del New Deal rooseveltiano.
A seguito del primo conflitto mondiale e prima della sua morte, il progetto di Wilson era la creazione di un nuovo ordine mondiale basato sulla cooperazione internazionale al fine di garantire pace, integrità territoriale ed indipendenza politica. L’obbiettivo dei suoi 14 punti era quello di una pace di riconciliazione tra tutte le potenze. Nel corso della conferenza di Versailles fu costretto ad accettare molti compromessi ma riuscì a salvare il suo progetto di Società delle Nazioni.
L’ostilità della fazione più intransigente del Partito Repubblicano gridava la sua opposizione a qualsiasi partecipazione americana ad organizzazioni internazionali. Il Congresso rifiutò di ratificare il progetto della Società delle Nazioni e benché nel 1920 ottenne il premio Nobel per la Pace, il presidente Wilson si ritirò ammalato e deluso. Le aspettative da lui suscitate furono altissime e, come spesso accade, vennero presto sostituite da un sentimento di profonda disillusione.
Nel 1920 il repubblicano Warren Harding venne eletto sulla piattaforma di “ritorno alla normalità”, molto apprezzata da una nazione fiaccata dai sacrifici della guerra. Prima della sua candidatura, egli aveva detto che ciò di cui l’America aveva bisogno erano “non gli esperimenti ma l’equilibrio, non l’avventurarsi nei problemi internazionali ma la salvaguardia di un trionfante nazionalismo”. Gli Stati Uniti non ratificarono il trattato di Versailles ed il 2 Luglio 1921 il nuovo presidente concluse un trattato separato con la Germania.
Da quel momento, le successive amministrazioni applicarono una politica estera che pur conservando una propria autonomia rifiutava qualsiasi coinvolgimento. Nel senso più stretto della parola questa politica non fu rigidamente isolazionista: mirava ad una cooperazione internazionale senza impegni specifici al fine di favorire la stabilità economica.
Nel 1923 salì alla presidenza Calvin Coolidge. Non aveva alcuna predisposizione né interesse per la politica estera. Gli è stata attribuita la frase “gli affari dell’America sono gli affari”. Eletto nel 1928, il suo successore Hoover propose un programma conservatore introducendo l’idea del “New Day” (il nuovo giorno), in vista di realizzare il pieno potenziale economico della nazione. Nel corso della sua campagna aveva promesso l’imminente e definitiva scomparsa della povertà.
L’opinione pubblica rimaneva ostile all’internazionalismo wilsoniano e contraria a che il paese assumesse quegli impegni che l’adesione alla Società delle Nazioni avrebbe comportato. Vi fu una recrudescenza di nativismo che si manifestò anche in un sentimento di contrarietà nel farsi invischiare nelle controversie europee che sembravano non avere mai fine. Questo movimento, sorto dalla recessione che seguì la fine del conflitto e rafforzato dal cosiddetto “terrore rosso” e dalla fondazione della Terza Internazionale, oltre ad un’ostilità per l’Europa spingeva anche per limitare fortemente l’immigrazione.
Con la miseria ed il tracollo dell’economia che ne seguirono, l’arrivo della Grande Depressione contribuì a mantenere l’orientamento isolazionista e ad aprire un periodo di pacifismo che condusse, nel 1932, alla vittoria elettorale di Franklin Delano Roosevelt.
La prosperità degli anni Venti era un ricordo: crollò la Borsa, l’industria aveva superato la possibilità di assorbimento dei consumatori, calarono le esportazioni, svanì la fiducia negli affari ed intere famiglie persero ogni loro risparmio ed in molti casi persino l’abitazione. Aumentò vistosamente anche il numero dei disoccupati.
Distratti dalle conseguenze della Grande Depressione e delusi dall’esperienza della Prima Guerra Mondiale, gli americani non avevano intenzione di farsi coinvolgere in un altro conflitto: l’opinione pubblica era assorbita dai problemi interni e persuasa che i contrasti internazionali non ledessero nessun interesse vitale del Paese. Nel Dicembre 1933, alla settima Conferenza Panamericana di Montevideo, il Segretario di Stato Cordell Hull sottoscrisse un accordo nel quale si affermava “che nessuno Stato ha il diritto di intromettersi negli affari interni di un altro”.
Di fronte ad un’opinione pubblica del tutto contraria agli impegni internazionali, il presidente Roosevelt fu costretto a lasciare agli isolazionisti del Congresso il controllo della politica estera. Si può dire perciò che gli Stati Uniti ebbero involontariamente una responsabilità nel contribuire al consolidamento delle potenze dell’Asse.
Il nuovo presidente, che nel suo primo discorso aveva sostenuto che “la sola cosa da temere è la paura”, affrontò questa crisi con il cosiddetto “New Deal” che ebbe inizio con i “Cento giorni”, nel corso dei quali fece approvare tutta la sua legislazione iniziale. La seconda fase del piano portò al Wagner Act del 1935, un ampio programma di soccorso per dare alla nazione qualcosa di più in cui sperare. Fu un periodo di grande attività nel quale tutte le energie si erano concentrate nell’affrontare i gravissimi problemi interni e migliorare le condizioni della popolazione, in molti casi disperate.
Verso la fine dell’estate del 1937, malgrado un energico intervento dello Stato nell’economia, vi fu una ripresa della crisi. Si prolungavano la stanchezza e la disperazione della popolazione, l’orientamento isolazionista restava forte tanto che il paese fece ben poco per opporsi alle dittature o incoraggiare altri a farlo. Tornato alla Casa Bianca nel Gennaio del 1938, Roosevelt promise la massima attenzione a “quel terzo del Paese male alloggiato, malvestito, malnutrito”. Già nel 1935, 1936 e 1937 aveva promulgato tre diversi atti di neutralità per tenere gli Stati Uniti lontani da una guerra ed evitare che ne venissero coinvolti.
Nel Giugno del 1940, a sottolineare quest’ostilità ad assumere impegni internazionali venne fondato l’America First Committee che fece subito molti proseliti in quanto propugnava una difesa egoistica degli interessi nazionali. L’Europa era vista come senza speranza e la Germania non rappresentava in fondo una minaccia per la nazione. Questo era particolarmente sentito da tutte quelle comunità che vivevano nella parte interna del Paese: per loro in nessun modo gli Stati Uniti avrebbero dovuto farsi coinvolgere in un conflitto.
Nelle presidenziali del 1940, benché pienamente consapevole di ciò che stava accadendo nel mondo, il presidente Roosevelt per opporsi al rivale repubblicano Wendell Wilkie promise agli americani che non avrebbero mai preso parte a “nessuna guerra straniera”. Nel Novembre del 1939 egli aveva però emendato la legislazione sulla neutralità togliendo il divieto di vendere armi. Nel Marzo del 1941 sostituì questi atti di neutralità con il “Lend-Lease Act” (legge degli affitti e prestiti), il cui scopo era quello di venire in soccorso agli Alleati senza intervenire direttamente nel conflitto.
Tornando nuovamente ai nostri giorni, malgrado gli enormi passi avanti compiuti in questi ultimi anni dalla Cina, gli Stati Uniti restano ancora la più grande potenza mondiale con una capacità di proiezione che nessun altro paese può vantare. Alla fine però è probabilmente il loro potere di attrazione (soft power) che ne fanno tutt’ora un esempio per il mondo. Da quello che si è visto con le ultime amministrazioni il dibattito sulla natura della politica estera americana resta sempre aperto e si è caratterizzato da fasi alterne di tendenze isolazioniste, posizioni interventiste, unilateralismo ed infine azioni multilaterali.
Rimane sempre forte quel sentimento di idealismo come espresso dal presidente Wilson nel suo discorso al Congresso in cui chiedeva l’intervento militare contro la Germania. Presentò la partecipazione degli Stati Uniti al conflitto come un atto di giustizia universale per la creazione di un nuovo ordine mondiale in grado di “offrire sicurezza alla democrazia”.
Nota: Gli eventi che stiamo oggi vivendo indicano la direzione verso un mondo meno prospero, meno integrato e meno stabile. Ad emergere è ora una Cina le cui precedenze vengono date alla sicurezza nazionale, al controllo della società ed a un rigido autoritarismo.
Facendo un rapido passo indietro, abbiamo visto il presidente cinese Xi Jinping emergere dal XX Congresso del Partito Comunista Cinese avendo ottenuto ciò che voleva, incluso un terzo mandato come segretario generale del partito, un fatto senza precedenti che ne fa l’uomo più potente della Cina dai tempi di Mao. Egli ha infatti finito col concentrare su di sé tutti i poteri, incluso quello militare.
Riguardo il presidente americano Biden, malgrado il paese fosse scontento dell’andamento delle cose e da più di un lato si temeva un’ondata repubblicana nelle elezione di medio termine, il Partito Democratico è uscito dalla prova ben meglio di ciò che ci si aspettava. Queste per il presidente sono dunque giornate positive, in quanto ne hanno convalidato l’azione ed i Democratici hanno perso alla Camera solo per un pugno di voti ed al Senato potrebbero forse anche ottenere la maggioranza. Si sono lasciati alle spalle un Partito Repubblicano diviso e meno sicuro di sé.
Biden è riuscito a difendere quei grandi valori che definiscono la nazione americana e nel corso dei primi due anni del suo mandato è riuscito ad ottenere una serie di vittorie legislative i cui effetti verranno avvertiti per lungo tempo. Non a caso il senatore del Massachusetts Elizabeth Warren ha detto che “questa vittoria appartiene a Joe Biden”, mentre alcuni dei suoi consiglieri in tono euforico hanno parlato di “miracolo”.
E’ in questo clima di successo per entrambi che i leader si sono incontrati al G20 di Bali conversando insieme per circa tre ore. Dato il crescente clima di tensione, sospetti e conflitti tra questi due grandi Paesi, si sono resi conto dell’urgenza di un dialogo approfondito: non sono in pochi in giro per il mondo a sostenere che sia in atto una nuova Guerra Fredda e che questa potrebbe farsi più acuta.
Gli Stati Uniti si dovranno confrontare con una nazione che considerano l’unica capace di sfidare la loro supremazia, la sola – come aveva scritto il presidente americano – “con l’intento di rimettere in discussione l’ordine internazionale e con il potere militare, economico, politico e tecnologico per farlo”. Ormai Washington non sembra più credere che sia possibile riformare la Cina e, ai suoi occhi, Xi Jinping è un autocrate al quale è riuscito stringere la sua presa sul potere all’interno del paese e diventare un più pericoloso antagonista nel suo ruolo di avversario globale. Spetterà dunque agli Stati Uniti frenare l’avanzamento della Cina e controllarne le ambizioni militari e tecnologiche.
La Cina reputa che la direzione degli eventi ed il tempo sono dalla sua parte; quanto all’America la sua egemonia “è la più grande fonte di caos nel mondo attuale”. Il presidente Xi Jinping si sente investito di una missione nazionalista che lo porta a trasformare il suo paese in uno Stato autoritario nel quale si vede come capo spirituale e statista visionario, custode della disciplina e del tradizionale sistema gerarchico cinese: il suo modo di intendere l’autorità è essenzialmente illiberale e basato sul concetto che egli incarna l’essenza della nazione. E’ inoltre convinto che le democrazie non siano in grado di funzionare perché troppo lente nel decidere, deboli ed il più delle volte inefficaci.
Memore delle passate umiliazioni per mano delle nazioni colonialiste e determinato a far sì che il suo Paese non precipiti più nel caos, nel disordine politico, nelle ribellioni e non diventi preda di aggressioni straniere, Xi Jinping ritiene la Cina la sola a poter sfidare la supremazia americana: ai suoi occhi “l’Oriente è in ascesa, l’Occidente in declino”.
Egli intende mostrare la superiorità del sistema cinese nel raggiungere grandi risultati e lui stesso considera gli Stati Uniti e le democrazie in uno stato di declino terminale: l’egemonia americana crea disordine nel mondo e la Cina deve tornare ad essere una grande potenza, capace persino di superare gli Stati Uniti.
Il paradosso è che in più di un modo Cina e Stati Uniti si assomigliano: “la città sulla collina” contro “l’impero di mezzo”, tra il cielo e la terra e, più recentemente, la “nazione centrale”. Ambedue si sentono investiti di una loro particolare missione: per l’America si tratta di una missione provvidenziale in difesa della democrazia nel mondo esportandovi il modello americano. Quanto alla Cina, il suo presidente, erettosi a custode dell’eredità del partito e della sua supremazia, si è dato quella di restituirgli la sua grandezza e il suo prestigio per farne la prima potenza del mondo. Il suo nazionalismo si manifesta in un fervore anti-americano.
Non diversamente dalla Dottrina Monroe che esprimeva la volontà degli Stati Uniti di esercitare il loro controllo sull’emisfero occidentale, Pechino ritiene che l’Asia appartenga agli asiatici e che, come grande potenza, la Cina deve espandervi la sua propria sfera di influenza: non vuole perciò intromissioni da parte di potenze straniere. Queste le parole del presidente Xi Jinping nel corso del XX Congresso del Partito Comunista Cinese: “Il nostro nuovo viaggio sarà lungo e pieno di sogni di gloria in direzione di un futuro più luminoso e radioso”.
Con nove volte la popolazione della Russia ed un’economia dieci volte più grande, agli occhi degli Stati Uniti la Cina è l’unico paese capace di far loro concorrenza. E’ già da qualche tempo che con maggiore insistenza Pechino sta pressando per una serie di richieste economiche, politiche e territoriali al punto che Washington la vede ormai come rivale e potenziale minaccia. Di fronte a questa situazione, che vi siano tensioni è inevitabile e non a caso gli scambi tra loro possono spesso assumere toni bellicosi.
Il paradosso è che malgrado i disaccordi, vi sono anche dei valori e degli interessi che entrambi i Paesi condividono. Tra competizione, rivalità e cooperazione, hanno bisogno l’uno dell’altro: secondo il presidente cinese “un declino disordinato degli Stati Uniti risulterebbe in un disastro per noi come per l’economia mondiale. La Cina crede che un America stabile, unita e prospera sia per lei un bene, almeno per il momento”.
Malgrado gli ideali e le speranze che avevano riposto nell’integrare la Cina nel circuito economico mondiale e nel collaborare al suo sviluppo economico, gli Stati Uniti non riusciranno a cambiarla: resteranno sempre inevitabili differenze, ma vi sono tuttavia reali possibilità di intesa e di progresso anche se è già in corso uno scontro globale. Benché Xi Jinping voglia erigersi ad alfiere di una Cina più forte e prospera, è indubbio che gli Stati Uniti dal punto di vista militare, economico, culturale e tecnologico restino tutt’ora la più grande potenza.
L’inevitabilità della crescita cinese ci indica che stiamo entrando in un periodo nel quale sarà impossibile non confrontarci con una sua crescente influenza ed un suo maggior potere. Per l’Occidente questo significa anche che da parte del sistema politico e sociale cinese è stata lanciata una sfida morale ed esistenziale, quella di una forte alternativa alla democrazia e al liberalismo. Non sono in pochi a temere una contesa per il dominio globale che potrebbe aprire le porte ad uno scontro tra autocrazia e democrazia.
Senza menzionare la cosiddetta “trappola di Tucidide”, resta indubbio che la Cina di Xi Jinping si sta evolvendo in un qualcosa che difficilmente può confrontarsi con i regimi del passato. I risultati delle recenti elezioni di metà mandato hanno mostrato il buon funzionamento del sistema costituzionale americano: il processo democratico ha retto ed il presidente Biden ne è uscito rafforzato per via dei risultati ottenuti dal suo partito, migliori di quelli previsti.
L’incontro di Bali con il presidente Xi Jinping ha evidenziato come nessuno dei due desideri che la competizione tra loro possa sfociare in un conflitto. Non hanno nascosto i loro dissidi riguardo Taiwan e la loro rivalità militare con quello che ne consegue. “Competeremo con vigore, ma non sono alla ricerca di un conflitto. Intendo gestire responsabilmente questa competizione”, ha detto il presidente Biden. Il suo omologo cinese ha evidenziato come “Cina e Stati Uniti debbano tenere la barra a dritta e trovare il modo giusto di sviluppare i nostri rapporti bilaterali”.
Così dicendo hanno mostrato la volontà di gettare acqua sul fuoco riguardo i rischi di uno scontro, in particolare su Taiwan, considerata il centro di più grave contenzioso, tanto che rivolgendosi al suo omologo americano il presidente cinese lo ha avvertito “che chi gioca col fuoco si brucia”. Nessuno dei due si aspettava comunque concessioni sui punti ove più maggiore è il disaccordo: l’intendersi tra loro è stata la cosa più importante, ma resta il fatto che stiamo assistendo ad un ridisegnarsi degli equilibri mondiali ed al confronto tra due nazioni che non vogliono essere seconde a nessuno.
Con Biden gli Stati Uniti sono tornati sulla scena internazionale e la sua amministrazione, al contrario della precedente, crede nelle alleanze, nel multilateralismo e nella cooperazione con l’Europa. Tramontata la Guerra Fredda e superati gli anni del cosiddetto unipolarismo americano, resta il fatto che oramai ci si trova ad agire in un mondo multipolare, in cui la Cina ed altri avversari degli Stati Uniti chiedono di avere pari ruolo.
Per gli americani questa è una sfida inedita e resta da vedere quale direzione daranno alla loro politica estera e a quali dei loro princìpi e tradizioni attingeranno.
Sulla Cina resta però sempre un’incognita. Oggi appare come un monolite, potrebbe però risultare un gigante dai piedi d’argilla: il sistema che ha creato, come tutti quelli simili, ha i suoi limiti. I cinesi di oggi non sono più quelli di prima, il regime sta chiudendo le porte al mondo, il rigore della sua politica di “zero COVID” e di imbrigliare il settore privato stanno creando malumori ed irrequietezza, soprattutto tra i giovani. Se a ciò aggiungiamo la sua durezza, l’assenza di libertà, il monitoraggio dei cittadini, la violazione dei diritti umani e le difficoltà dell’economia, non si può non vedere come questo modello manchi di attrattiva. Malgrado l’indottrinamento dato dell’educazione patriottica e la riscrittura del passato, tutto ciò potrebbe un giorno minarne le fondamenta.