Da Beirut a Tehran, le ultime azioni di Israele e possibili conseguenze nella regione.
Prologo: Costretto a passare l’estate nella residenza che mi ospita, ho voluto seguire gli eventi di questi ultimi due mesi per rendere l’eventuale lettore meglio informato e perciò più partecipe dell’attuale dramma in Medio Oriente.
Di fronte all’evidenza dei fatti sono certo si potrà rendere conto dell’urgenza di un’azione diplomatica di vasta portata ed al di fuori di schemi che reputo ormai passati. La buona diplomazia non getta mai la spugna ed è bene ricordare che politica estera e diplomazia nel corso della Storia hanno risolto più casi intricati di quanti se ne vogliano ricordare.
In un clima di continue azioni nella Striscia di Gaza da parte di Israele e di accorati appelli del Segretario di Stato Blinken, il ministro della Difesa israeliano Gallant dichiarava che le Forze armate avevano ucciso o ferito il 60% dei combattenti di Hamas. Quest’ultima annunciava che a metà del decimo mese di guerra le vittime tra si avvicinavano alle 39 mila. Ultima ad essere colpita, una scuola: 44 i morti. Il premier Netanyahu annunciava di voler aumentare la pressione su Hamas. Il presidente turco Erdogan minacciava nel frattempo un attacco in caso di aggravamento della situazione in Libano.
Dallo Yemen gli Houthi rivendicavano un’azione militare contro Tel Aviv che aveva fatto una vittima: il drone era passato inosservato. In risposta, veniva colpito l’importante porto di Hodeida con la distruzione di una centrale elettrica e depositi di carburante. Tre i morti. L’onnipresente Gallant, nella sua lugubre tenuta nera che spesso indossa, aveva comunicato che dal territorio yemenita erano partiti oltre 200 attacchi e che vi sarebbe stata una risposta ogni qual volta vi fosse stata una vittima.
In questo stesso periodo la Knesset adottava una risoluzione contro la creazione di uno Stato Palestinese. Pochi giorni prima si erano svolte in Siria le quinte elezioni dopo la guerra civile scoppiata nel 2011. Lo scrutinio è avvenuto nelle aree controllate dal governo di Assad e si è votato come se nulla fosse in un contesto nel quale il Parlamento non conterà nulla. La situazione economica è molto difficile e la solidità dello Stato è garantita solo dalla presenza militare russa da un lato e dall’Iran, tramite Hezbollah e la presenza di milizie dei Guardiani della Rivoluzione, dall’altro.
Mentre continuavano a bruciare le installazioni energetiche di Hodeida, il 21 Luglio gli Houthi annunciavano che avrebbero proseguito i loro attacchi contro Israele e lanciavano subito alcuni missili in direzione di Eilat sul Mar Rosso. Netanyahu confermava la sua visita negli Stati Uniti dove sembrava disponibile a trovare un accordo con Hamas su Gaza e la liberazione degli ostaggi.
Il premier israeliano a Washington: Il giorno seguente Netanyahu sbarcava a Washington per incontrarsi col presidente Biden. L’incontro successivo si sarebbe poi svolto con il suo vice Kamala Harris ed infine forse anche con Trump. In mezzo, un intervento al Congresso a camere riunite.
Dopo la rinuncia alla candidatura del presidente americano egli sapeva trovarsi di fronte ad una situazione inedita, considerando soprattutto che negli ultimi tempi i suoi rapporti con la Casa Bianca, già non buoni con Obama, erano sensibilmente peggiorati.
Al momento dell’incontro i due si erano salutati con un sorriso, ma senza calore. Il premier israeliano si è voluto congratulare con Biden per il buon lavoro svolto e per la solidità dei suoi rapporti con Israele. Tra di loro i rapporti non erano certo stati facili, con il presidente americano che cercava di dare consigli e dettare prudenza ed il premier invece che non perdeva l’occasione per ignorarlo. Le loro vedute erano diverse, se non a volte diametralmente opposte. Biden però ha sempre finito col mostrarsi amico e fedele alleato di Israele. In risposta, succedeva spesso che Netanyahu se la prendesse con lui, il che non faceva che aumentare le tensioni fra i due personaggi. Restava ora tutta da vedere quale sarebbe stata la natura di questi rapporti negli ultimi sei mesi della sua presidenza.
Non sarei stupito se potessero addirittura volgere al peggio nel caso Biden continuasse a pressarlo con insistenza in favore di un accordo. Che lo faccia è inevitabile, così come inevitabile è che il premier israeliano continuerà a puntare i piedi ed agire in vista dell’eliminazione di Hamas. La Casa Bianca aveva annunciato la possibilità di un accordo entro breve. Restava da vedere come avrebbe risposto Israele, quale leadership avrebbe mostrato Netanyahu e a quali compromessi sarebbe stato disponibile. Riguardo la sua scelta in favore della Harris, Biden gli aveva anche detto che meglio si accordava alla necessità di trovare nuove e più giovani voci.
Ha fatto poi seguito l’appuntamento con la Harris. Tutto formalità e buone maniere, ma anche qui senza grande calore. Sulla questione del Medio Oriente, la vicepresidente ha lasciato intendere che avrebbe seguito una linea di continuità pur non restando indifferente alla tragedia della popolazione civile a Gaza. Sarebbe stata contraria ad ogni manifestazione di antisemitismo e si sarebbe assicurata che Israele possa sempre essere in grado di difendersi tenendo però conto di ogni sofferenza umana.
Il premier si è successivamente recato al Congresso dove per protesta una settantina di deputati del Partito Democratico avevano annunciato che non si sarebbero presentati in aula. La stessa Harris era assente mentre Rashida Tlaib, rappresentante della sinistra democratica, esponeva un cartello con su scritto “criminale di guerra”.
Netanyahu dava inizio al suo discorso ringraziando le due Camere per l’ospitalità e l’accoglienza. Si trattava per lui del quarto invito a parlare di fronte al Congresso, opportunità mai concessa a nessun altro leader. Anche se costantemente interrotto dagli applausi dei repubblicani, in tutta franchezza non è stato un bel discorso: settario, privo di sfumature, poco aderente alla realtà e concepito per un pubblico di eletti di estrema destra. Farcito di affermazioni patriottiche scontate, si è trattato in breve di un discorso da comizio politico oltre che di marketing. Il premier israeliano si è limitato a dichiarare che continuerà la guerra, senza neppure pronunciare una parola su come uscire dall’attuale spirale di violenza. Nessuna promessa per il futuro, zero visione per l’avvenire. Nulla.
Il premier ha voluto aprire il suo intervento sottolineando come il mondo sia giunto ad un punto di non ritorno. Non si era di fronte ad uno scontro tra civiltà, ma di un conflitto tra barbarie e civiltà, tra chi glorificava la morte e chi esaltava la vita. Stati Uniti ed Israele dovevano restare uniti per veder trionfare la civiltà: “Quando uniti, noi vinciamo e loro perdono”.
Per meglio evidenziare la natura del dramma vissuto dal suo paese, Netanyahu ha voluto paragonare il 7 Ottobre con la mattina del 7 Dicembre 1941, data dell’attacco giapponese a Pearl Harbor, che Roosevelt definì “Il giorno dell’infamia”. Ha aggiunto che quel paradiso che è la terra di Israele si è improvvisamente trasformato in un inferno quando tremila assassini lo hanno invaso, uccidendo persone di 41 Paesi e trascinandosi dietro 255 ostaggi di ogni età e sesso. Ha poi parlato di loro, del dolore delle famiglie e sottolineato con piglio deciso che non avrebbe ceduto fino a che non sarebbero tornati tutti a casa. Continuando, ha denunciato l’asse del terrore guidato dall’Iran ed elogiato il presidente Biden per il suo appoggio. Subito dopo arrivava quella che per me è stata una brutta caduta di stile.
Strumentalizzando la presenza di alcuni reduci scelti con cura per evidenziare alcuni punti specifici del suo discorso, egli iniziava lodandone il coraggio. Si trattava nel primo caso di un soldato musulmano di origini beduine recatosi in prima linea per combattere al fianco di ebrei, drusi, cristiani ed altre etnie. Il secondo era un carrista al quale una granata aveva fatto perdere l’occhio sinistro ed il braccio destro. Appartenente ad una famiglia di immigrati etiopi, il terzo aveva corso una distanza di 12 km per andare al fronte e poi uccidere molti terroristi, oltre a salvare parecchie vite. Il quarto infine, perduta una gamba aveva continuato a battersi.
Per concludere il quadro, ha fatto intervenire un sopravvissuto all’Olocausto il cui figlio maggiore, dal passato di veterano, si era offerto volontario per tornare a combattere e finire dilaniato da una mina all’interno di una galleria. A questo padre il premier aveva chiesto di alzarsi per onorare il sacrificio del figlio.
“Ecco – ha esclamato il premier indicandoli – i soldati di Israele, temerari e senza paura”. Di questi però, nessuno sorrideva o si mostrava fiero: avevano tutti un’aria sommessa ed addolorata, esprimendo più sofferenza e distacco che prodezza marziale. A guardarli ho provato gran pena e tanta tenerezza e sono certo che se non fosse stato loro richiesto non sarebbero mai venuti fino lì per mettersi in mostra come esempio di valore. Presente in aula anche uno degli ostaggi, una giovane donna dall’aria assente, quasi inebetita, moralmente stordita ed incapace di esprimere la minima gioia. Non vi era dubbio che ognuna di queste persone era tornata a casa traumatizzata e con profonde lacerazioni sia nel corpo che nell’anima: nulla di cui gioire ed essere fieri, solo un gruppo di vite spezzate.
Dopo tutto ciò che avevano passato, non dovevano essere esposti per fare da sfondo a Netanyahu che ha solo dato prova di scarsa sensibilità e ancor meno tatto. Erano persone che avevano semplicemente fatto il proprio dovere e che si trovavano adesso vittime della tragedia della guerra con impresso sul corpo lo stigma della violenza. Menomati fisicamente e psicologicamente, dovranno d’ora in poi dare un senso alla loro vita.
Cosa vi è di tanto bello, di tanto degno da essere messo in mostra? Non ha poi esitato a battere il tasto dell’Olocausto per sottolineare che è proprio perché esiste uno Stato di Israele che il suo popolo non è più disarmato di fronte al nemico. Su quest’ultima affermazione gli do ragione, ma il suo è stato un discorso ideologico e lontano dalla realtà, una visione esaltata del corpo, della nazione e della guerra. Parole incoscienti che traducono il cinismo della politica. E’ questo il prezzo che si vuol continuare a pagare? Sarebbe tempo di guardare al futuro, agire politicamente e non tenere comizi.
Per lui una cosa è certa: mai più vi sarà un 7 Ottobre. Da lì passava a denunciare il flagello dell’antisemitismo, per poi indignarsi di fronte al fatto che si voleva far passare Israele per un criminale di guerra: “Israele si difenderà sempre e mai avrà le mani legate”. Per accarezzare il sentimento nazionale di buona parte dell’aula, il premier descriveva con enfasi il paese dei suoi ospiti come la più grande potenza mondiale ed il protettore della civiltà occidentale. Assecondando l’umore dei repubblicani presenti, egli sottolineava come il vero nemico fosse l’Iran ed Israele in questa lotta era solo un mezzo. Per concludere, ha lanciato l’allarme che per sconfiggere gli Stati Uniti Tehran doveva innanzitutto impossessarsi del Medio Oriente.
Per meglio perorare la sua causa e convincere i suoi ospiti, Netanyahu ha avuto cura di sottolineare come i nemici di Israele fossero quelli degli Stati Uniti, che la guerra di Israele è la stessa di quella degli americani e che la sua vittoria sarà la loro. Ha omaggiato Trump, per chiedere in seguito chiesto lo sblocco degli aiuti militari e l’invio di più armi. Tutti insieme in piedi, i Repubblicani hanno riempito l’aula di applausi.
Questo intervento a Camere riunite è stato a dir poco unilaterale ma cos’altro aspettarsi dal capo del governo più a destra della storia di Israele? Cosa ha fatto questo premier da quando è al potere, se non dire che non vi può essere pace e neppure uno Stato palestinese? La sola proposta che sembra offrire è quella di vivere in uno stato di allerta permanente.
Nel frattempo, all’esterno del Congresso migliaia di dimostranti erano scesi in strada per protestare contro i massacri di Gaza. Di questi, un folto gruppo si era radunato di fronte al Campidoglio tentando di entrarvi: è subito intervenuta la polizia che non ha esitato a fare uso di gas urticanti. Grande manifestazione anche di fronte alla stazione ferroviaria della capitale, dove un gruppo di arrabbiati manifestanti aveva ammainato una bandiera americana dandole poi fuoco dopo averla gettata a terra. Al suo posto veniva issata quella palestinese.
Il 26 Luglio il premier israeliano si recava in visita a Mar-a-lago, la grande residenza di Trump in Florida. Insieme hanno affrontato vari temi e criticato la posizione della Harris riguardo i civili di Gaza. Nel corso della visita Trump gli aveva regalato uno di quei ridicoli cappellini con visiera così in voga tra le classi medie americane con su scritto “Fino alla vittoria finale”. A quale vittoria si riferiva, non lo so: a quella sua per la Casa Bianca o a quella di Netanyahu a Gaza? Forse ad entrambe.
Resta da chiedersi a questo punto cosa sia andato a fare Netanyahu negli Stati Uniti. Con tutta probabilità vi si era recato per darsi l’opportunità di fiutare l’aria e capire se vi sarebbero stati cambiamenti nella politica americana nei confronti di Israele. Avrà certamente colto il messaggio che vi sarebbe stata continuità nell’azione della Harris, anche se quest’ultima si sarebbe mostrata più attenta alle sofferenza della popolazione civile di Gaza. Doveva infatti assicurarsi l’appoggio della componente di sinistra del Partito Democratico ed il consenso della comunità musulmana, entrambe piuttosto critiche nei confronti dell’azione di Biden.
Per il premier si è trattato anche anche di assicurarsi la propria sopravvivenza politica: mai come oggi Israele è stato tanto diviso al punto che ogni settimana si svolgevano manifestazioni contro di lui e che le stesse Forze armate non gli risparmiavano critiche. Ad aumentare le sue pene, anche il trovarsi sotto pressione da parte del suo governo i cui elementi più radicali ed intransigenti non intendevano fare passi indietro né sulle operazioni militari in corso e né sulla questione palestinese.
Il rientro frettoloso in patria ed eventi successivi: All’improvvisa notizia di un attacco missilistico su un villaggio druso nel Golan, il 27 Luglio Netanyahu decideva di interrompere la sua visita negli Stati Uniti, cosa mai avvenuta in precedenza. Dei razzi provenenti dal Libano avevano colpito un campo di calcio nel corso di una partita tra adolescenti facendo 12 vittime, tutte tra i 10 e i 16 anni.
Le alture del Golan erano state occupate da Israele nel 1967 a seguito della Guerra dei Sei Giorni per poi passare dal 1981 sotto la sua giurisdizione. Quest’area è di grande importanza non solo dal punto di vista strategico ma anche per l’approvvigionamento idrico dello Stato Ebraico. In tutta questa faccenda, il paradosso è che gli abitanti del centro colpito non si sentivano tanto israeliani quanto piuttosto siriani.
Per Israele era stato oltrepassato ogni limite e non perdeva tempo per accusare Hezbollah di essere l’autore della strage. Il gruppo lo aveva subito negato. Secondo fonti militari israeliane, alcuni dei frammenti di razzo esaminati erano di produzione iraniana e gli unici a possedere queste armi erano gli Hezbollah. Rientrato in patria, il premier Netanyahu aveva minacciato pesanti ritorsioni, mentre dagli Stati Uniti il Segretario di Stato Blinken dichiarava di volere evitare ad ogni costo un allargamento del conflitto.
Con gran sorpresa, nella giornata di Martedì 30 Luglio all’interno di un quartiere popolare sciita a sud di Beirut, in un improvviso attacco mirato un drone israeliano colpiva il piano di un edificio nel quale si stava svolgendo una riunione dell’ufficio politico di Hezbollah. Nell’attacco restava ucciso Fuad Shukr, braccio destro del leader dell’organizzazione Hassan Nasrallah e capo della sua ala militare. Le vittime sarebbero state in tutto tre ed i feriti una decina.
Shukr era considerato il responsabile del lancio del razzo che aveva colpito il villaggio druso nel Golan e se da un lato Israele ne annunciava la morte, dall’altro Hezbollah negava.
Un secondo attacco israeliano: Il giorno successivo all’attacco di Beirut, del tutto inaspettata giungeva la notizia di un attentato a Tehran in una residenza appartenente ai Guardiani della Rivoluzione nella quale era ospite il capo politico di Hamas, Ismael Haniyeh. Ucciso sul colpo per il suo coinvolgimento nei fatti del 7 Ottobre, era ormai da tempo nel mirino dei servizi israeliani. Assieme a lui è rimasta vittima una guardia del corpo. Nell’appartamento adiacente si trovava anche un capo della Jihad islamica che però era rimasto illeso.
Haniyeh aveva 62 anni ed oltre che in Qatar aveva anche passato lunghi periodi in Turchia. In precedenza si era scontrato con il capo dell’ANP Abu Abbas ed era stato tra i responsabili del colpo di Stato a Gaza del 2007. Dopo l’uccisione di un suo stretto collaboratore a Beirut era il volto politico di Hamas.
Era urgente trovargli un sostituto in grado di essere interlocutore privilegiato di Egitto e Qatar. Si facevano i nomi di Moussa Abu Marzouk, di tendenze relativamente moderate, dell’attuale inviato al Cairo Khalil al-Hayya ed infine di Khaled Meshaal, importante esponente del movimento e capo del suo ufficio politico dal 1996 al 2017. Quest’ultimo era però sgradito a Tehran per essersi schierato in favore della rivolta siriana del 2011 diretta contro il suo alleato Assad. In quanto a Gaza, l’uomo forte di Hamas restava Yahya Sinwar, capo della sua ala militare. Fino a quel momento erano stati colpiti già 4 dei suoi 6 dirigenti coinvolti nella pianificazione dell’attacco del 7 Ottobre.
A seguito di quella giornata Israele aveva deciso di eliminarlo. Haniyeh era sbarcato nella capitale iraniana per presenziare all’investitura del nuovo presidente Pezeshkian, entrato in carica tre giorni prima. Nel suo discorso inaugurale, piuttosto duro, egli aveva difeso la causa palestinese e denunciato Israele e Stati Uniti.
E’ difficile pensare che questo attacco potesse restare impunito dato che era nella logica delle cose che la Repubblica Islamica dovesse preparare una risposta. Il regime si era trovato in grande imbarazzo per aver subito un’umiliazione che toccava la sicurezza e l’immagine del Paese: con questa azione era evidente a tutti come i servizi israeliani fossero in grado di ottenere ogni tipo di informazione nel pieno della capitale iraniana ed avere poi le capacità di operare a piacimento. Sarebbe stato perciò necessario agire in qualche modo, se non almeno per inviare un segnale che l’Iran non era disposto a subire altri attacchi. Il problema sarebbe stato quello di come dosare la risposta.
Qualunque cosa il regime avesse deciso, è indispensabile capire che non intendeva compromettere lo sviluppo del suo programma nucleare e neppure la sicurezza del paese. Malgrado la retorica d’obbligo, restava prudente sapendo di non poter andare oltre certi limiti senza il rischio di incendiare l’intera regione.
Tornando al passato e prendendo in considerazione simili azioni condotte dallo Stato Ebraico in territorio iraniano, è possibile accorgersi che non si tratta di nulla di nuovo: a più riprese erano stati infatti presi di mira ed uccisi degli scienziati nucleari. Ricordo ancora di aver visto in più di un luogo le loro effigi con l’attribuzione di martiri. La situazione questa volta era però diversa in quanto la vittima non era solo un ospite, ma anche un amico del regime.
Da considerarsi erano le eventuali reazioni di Hezbollah a seguito della morte avvenuta il giorno prima a Beirut di Fuad Shukr. Se questi attentati non potevano restare senza risposta è anche vero che si era in guerra e, che piaccia o no, in guerra la gente muore. Si trattava in fondo di un morto come un altro e nessuno aveva intenzione di andare troppo oltre causando un allargamento del conflitto. Non restava che attendere i funerali delle vittime. Poi si vedrà.
Entrambi questi episodi avevano suscitato profonda indignazione nel mondo islamico tanto da provocare una serie di manifestazioni in Iran, Turchia, Marocco ed Iraq. Di fronte a questi attacchi Cina e Russia avevano espresso la loro disapprovazione, avvisando che gli autori avrebbero dovuto essere coscienti del pericolo di queste loro azioni. Più sul pezzo, il ministro degli Esteri del Qatar faceva sapere che è difficile cercare un accordo quando una parte uccide il negoziatore dell’altra.
Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese era scattato per denunciare il “vile attentato”, mentre Hamas descriveva l’evento come “un atto vile che non resterà impunito”, aggiungendo che Haniyeh era rimasto “ucciso da un’azione sionista a Tehran”. Inutile a questo punto parlare di negoziati e di cessate il fuoco. Durissimo il messaggio del nuovo presidente iraniano, che benché visto come un moderato, non poteva fare diversamente in quanto l’attacco aveva messo in difficoltà la sua fazione.
Da parte sua, parlando di “terrorismo di Stato” la Guida Suprema Alì Khamenei minacciava Israele di una “risposta dura”. Dal regime giungeva anche l’avviso che le forze dell’Asse della Resistenza avrebbero preparato una risposta. Intanto faceva il giro del mondo la dichiarazione che “l’entità sionista non ha ottenuto i risultati sperati”. Dallo Yemen, infine, arrivava la voce degli Houthi che dichiarava necessaria una risposta militare.
Israele non smentiva e non confermava. Vi è chi potrebbe chiedersi perché l’attentato sia stato compiuto a Tehran. La risposta è semplice: è vero che Haniyeh abitava regolarmente a Doha, ma è altrettanto vero che tra Israele e Qatar i rapporti erano numerosi e che parte dei negoziati si svolgeva lì. Questo obbiettivo era dunque da escludere, così come da escludere era la Turchia, paese dove la vittima aveva vissuto qualche tempo e che era per di più anche membro della Nato. Più comprensibile ed opportuno colpire in Iran.
Quale futuro per i negoziati?: Da Singapore, un Blinken dall’aria affaticata faceva sapere che gli Stati Uniti non erano stati informati dell’attacco e neppure ne erano coinvolti. Imperativo restava dunque adoperarsi per abbassare la tensione e trovare un accordo. Dal canto suo Kamala Harris non vi vedeva nulla di buono in quanto aveva necessità di riappacificarsi con la sinistra democratica ed ereditare il dossier di Gaza senza trovarsi costretta a pagarne l’impopolarità. L’attentato era inoltre avvenuto mentre dal Dipartimento di Stato giungevano voci sulla possibilità di un accordo.
A questo punto vi era chi pensava che a seguito di ciò Israele potesse avere ottenuto un vantaggio: l’uccisione di Haniyeh avrebbe infatti definitivamente affossato ogni possibilità di ripresa di dialogo tra Washington e Tehran. Devo dire che su questo avevo forti dubbi, perché quando lo avrebbero reputato necessario i due governi avrebbero trovato modo di parlare tra loro. I più pessimisti ritenevano che con un Netanyahu sempre più appiattito sulle posizioni dell’estrema destra ed un Israele che aveva colpito prima Hamas a Gaza, poi Hezbollah in Libano e per finire i vertici di Hamas in Iran, fosse stata messa la parola fine alla possibilità di un negoziato.
Altri, senza torto, pensavano che in Medio Oriente il solo modo per ottenere rispetto fosse quello di usare la forza: è più facile trattare con un nemico indebolito. Vero, ma non scontato. Sarebbe forse più utile in questo caso guardare all’aspetto psicologico della questione, includendo la storia, la cultura e la disposizione d’animo dell’avversario. Vi potrebbe essere un impatto sul tentativo di giungere ad un accordo se si considera che gli attentati erano stati preparati dal Mossad che allo stesso tempo siedeva al tavolo delle trattative? Restava sempre chi temeva una fuga in avanti da parte dei protagonisti.
La situazione era certo grave ma non è possibile fare a meno di riprendere i negoziati. Impensabile l’alternativa. Per fare una pace servono delle idee. Per ora non se ne vedevano molte ma restavo sempre dell’opinione che è grazie a questa crisi che non faceva che prolungarsi che si sarebbe potuto finalmente cogliere l’opportunità di risolvere la questione.
Sarebbe necessario realizzare che vi sono dei periodi nei quali, una volta posti, certi problemi trovano necessariamente la loro soluzione. Penso che sulla questione palestinese ci si possa essere vicini ed a questo punto o si inventa e si disegna l’avvenire o lo si subisce. Per chi si interessa di diplomazia questa è una sfida del più grande interesse. Si tratta infatti di trovare un modo per mettere d’accordo due nemici, ognuno dei quali determinato ad annientare l’altro e mettere fine ad una situazione che le autocrazie sfruttano in quella che è una loro guerra aperta contro l’Occidente e le democrazie liberali.
A rendere tutto più difficile, le ideologie, le necessità, i condizionamenti psicologici e le ineludibili prese di posizione di ogni parte, ciascuna delle quali ha l’imperativo di esaltare le proprie ragioni, mostrare le sue capacità di usare la forza e rispondere adeguatamente all’avversario. Nessuno se la sente di compiere quel necessario passo indietro per aprire la porta ad una trattativa. Indicativo il caso di Israele: non può fare a meno di evidenziare la sua capacità di deterrenza per fugare il dubbio che chiunque possa impunemente entrare ed uscire dal suo territorio lasciandosi appresso una scia di sangue senza poi pagarne le conseguenze. E’ costretto a far capire a tutti di poter colpire in ogni luogo ed a qualsiasi livello, dal più basso ai vertici. Non da meno Hamas, il cui obiettivo è la cancellazione di Israele dal Giordano al Mediterraneo con la volontà di sterminare un intero popolo.
Il colpo subito da Hamas è stato durissimo, come grave ed imbarazzante quello inferto ad Hezbollah a Beirut. Grande anche l’umiliazione subita da Tehran. Ciò malgrado, non penso che i vertici palestinesi cambieranno i loro obbiettivi nel negoziare con Israele. In quanto agli altri due protagonisti, nessuno di loro ha interesse ad aggravare il conflitto. E’ possibile che nel breve vi possa essere un’interruzione delle trattative, ma non potrà che essere breve. Il problema di Gaza non sparirà, come neppure quello del dramma della sua popolazione civile, né tantomeno quello della causa palestinese e del diritto di Israele ad esistere. Se le trattative venissero interrotte ne risulterebbe l’impossibilità pratica di andare avanti ed in questo caso, per rappresaglia, a pagarne il prezzo sarebbero gli ostaggi. Paradossalmente, da questa situazione Israele si è trovato contemporaneamente più forte e più debole.
Il trauma del 7 Ottobre: Non è certo mia intenzione scrivere queste righe per fare un elogio a Netanyahu ed al suo governo, ma ritengo necessaria questa breve deviazione. Poche righe indietro avevo menzionato la necessità di tenere conto della storia e della psicologia di una nazione. Questo è particolarmente vero per Israele, che nasce come Stato all’ombra dei pogrom, dell’Olocausto e di un perdurante antisemitismo sempre pronto a riaffacciarsi e colpire. Vi sono cose che lasciano impronte indelebili e che ne spiegano le reazioni ed il comportamento.
Con la giornata del 7 Ottobre lo Stato Ebraico perdeva per sempre l’idea della propria inviolabilità, che una volta persa non si recupera più: mai dalla sua nascita aveva visto profanate le sue frontiere e mai dai tempi della Shoah vissuto simili orrori. A cadere anche quel patto tra Stato e cittadino che avrebbe sempre garantito a quest’ultimo sia protezione che incolumità. A tenerlo vivo tutti i sacrifici che ha dovuto affrontare la popolazione di Israele negli ultimi 75 anni. Questi avvenimenti e la lacerante ferita che ne è seguita lo hanno infranto, cambiato il paese e fatto esplodere tensioni tali da arrivare a proporre l’obbligo del servizio militare agli Haredim (ultraortodossi), che fin dai giorni della fondazione di Israele ne erano stati esentati.
Dopo aver subito una ferita tale, Israele non poteva astenersi dal rispondere. La natura stessa del conflitto che ne è seguito lo ha posto purtroppo da un lato di fronte all’evidenza del suo isolamento internazionale e dall’altro l’assenza di prospettive di vittoria. Se la giornata del 7 Ottobre ha portato con sé alcune delle peggiori conseguenze possibili e messo in crisi tutto il vicinato, è anche vero che mai come oggi si potrebbero cogliere quelle opportunità per restituire pace all’intera regione. Ci sono, basta solo sforzarsi di vedere: sono tutte lì messe avanti dall’orrore cui stiamo assistendo.
Dopo i funerali di Haniyeh, celebrati a Tehran ed accompagnati da un bagno di folla e dalla recita della Preghiera dei Morti da parte della stessa Guida Suprema, è stata decretata una giornata di lutto. Per non lasciar nulla di frainteso, su molti edifici si vedeva sventolare una bandiera rossa, simbolo della vendetta. La sepoltura si è svolta in Qatar il venerdì 2 Agosto, proclamato “Giornata della collera”. Accanto al feretro c’erano rappresentanti di Hamas e della Jihad Islamica. Giornata di lutto decretata anche in Turchia. Hamas ed Iran giuravano vendetta.
Questi sviluppi inducevano il Segretario alla Difesa americano Lloyd Austin ad inviare navi ed aerei da combattimento nell’area per rinforzare le difese di Israele nel caso di un attacco dei vicini e dissuadere questi ultimi e l’Iran da provocare un allargamento del conflitto. Francia e Stati Uniti chiedevano ai loro residenti in Libano di lasciare il paese il prima possibile. Il presidente Biden si dichiarava molto preoccupato dalle tensioni in Medio Oriente ed in coro Tehran, Hezbollah, Hamas e gli Houthi continuavano ad invocare una risposta decisa ed ineluttabile. L’allarme ritorsioni si stava facendo sempre più serio ed Israele si preparava all’attacco.
Di questa risposta nessuno aveva idea di come si sarebbe potuta manifestare: la sfida era di darne una adeguata e che avesse senso, senza però comportare troppi rischi e tenere il conflitto entro certi limiti. Indispensabile per tutti salvare la faccia, utile a nessuno far precipitare la situazione.
Nella giornata di domenica una delegazione israeliana si era recata al Cairo per vedere di riprendere il filo delle trattative. Le dinamiche politiche interne ai vari attori rendevano più complicate le cose: Netanyahu aveva bisogno di tutelare il suo governo e distruggere i suoi avversari. Era talmente certo dell’impegno incondizionato di Washington che aveva ordinato l’uccisione di Haniyeh senza neppure informarla. Stretto tra le insistenze di Biden e le pressioni delle sue destre ultraortodosse e radicali, egli non era certo in una situazione comoda. Il presidente americano si trovava incastrato tra due opinioni pubbliche opposte ed un dibattito che si stava riflettendo negativamente anche in seno al suo partito. La Harris rischiava invece di giocarsi l’appoggio della sinistra democratica e di parte dell’elettorato se non avesse preso le distanze dalla politica di Biden.
Nella stessa giornata si erano riuniti i ministri degli Esteri dei paesi del G7. Avevano lanciato un appello alla pace e alla moderazione nell’augurio che se si fosse operato nel solco della razionalità non vi sarebbero stati né scontri diretti, né allargamento del conflitto. Si sospettava nel frattempo una probabile azione coordinata, soprattutto tra Iran ed Hezbollah, vittime entrambi dei recenti attacchi mirati da parte israeliana. Tehran affermava di avere il “diritto legale” di punire Israele. Sempre più persone si accalcavano nell’aeroporto di Beirut per lasciare il paese, inclusi molti turisti. Per via della ressa aumentava notevolmente il costo dei biglietti aerei. La marina americana aveva inviato alcune unità nelle vicinanze del porto in caso di un’evacuazione d’emergenza.
A Gaza proseguiva senza sosta l’offensiva dello Stato Ebraico e tra gli obiettivi venivano colpite delle scuole indicate come luoghi nei quali Hamas nascondeva armi, uomini e mezzi. Numerose le vittime. Il ministro della Difesa Gallant dichiarava che il paese era pronto su tutti i fronti per opporsi al nemico e, vantando la solidità dell’alleanza con gli Stati Uniti, metteva in guardia l’Iran. Se sperava di rassicurare la nazione non gli era certo riuscito. Il resto del mondo intanto tremava come se qualcosa di terribile fosse dietro l’angolo. Non penso il copione lo prevedesse, anche se il Segretario di Stato Blinken riassumeva i timori facendo appello alle parti affinché evitassero di esasperare le tensioni e si astenessero da ogni escalation. A Tehran era intanto sbarcato il segretario del Consiglio di Sicurezza della Federazione russa Sergei Shoigu per rendere più effettiva la collaborazione tra le due nazioni. Si trattava di un altro segnale al quale, circa dieci giorni più tardi, Washington ammoniva l’Iran di non inviare missili alla Russia da usare in Ucraina. Allo stesso tempo però riprendeva la vendita di armi offensive all’Arabia Saudita.
Hamas ha un nuovo capo: Il 6 Agosto giungeva la notizia che a rimpiazzare Ismail Haniyeh era stato scelto Yahya Sinwar. Capo dell’ala militare di Hamas, 61 anni, era nato in un campo profughi. Di fede sunnita, si era presto affiliato al movimento dei Fratelli Musulmani. A causa delle sue attività aveva poi passato 23 anni nelle carceri israeliane per uscirne nel 2011 a seguito di uno scambio di prigionieri. Era stato l’ideatore dell’attacco del 7 Ottobre e si nascondeva a Gaza. Sarebbe stato lui il soggetto con il quale Gerusalemme avrebbe d’ora in poi dovuto negoziare. Dopo gli esili dorati del ramo politico in Qatar, questa scelta indicava il ritorno di Hamas a Gaza. Per Israele il messaggio non poteva essere più chiaro tanto che il suo ministro degli Esteri ammoniva che sarebbe stato eliminato a breve. Netanyahu dal canto suo lo descriveva come un morto che cammina e ne prometteva l’eliminazione. Hamas ribatteva che con Sinwar alla guida era pronto a mostrare la sua volontà di resistere.
Di questa scelta il Segretario di Stato Blinken non si rallegrava, tanto da appellarsi sia a Tehran che a Gerusalemme chiedendo loro di astenersi dal provocare un conflitto in Medio Oriente. Dalla Farnesina, il nostro Tajani non trovava nulla di più originale da dire che sarebbe servita un’azione diplomatica ad ampio raggio. Sempre da queste parti e molto sicuro di sé, l’ex-responsabile del Sismi per il controspionaggio affermava che la guerra sarebbe presto scoppiata. Continuo a pensare che esauriti i fuochi d’artificio non vi sarebbe stato nessun allargamento del conflitto: tutti sanno come iniziare una guerra, molto più difficile dire come la si finisce. Perciò tranquilli, tant’è che sottolineando l’ovvio il presidente francese Macron dichiarava che un intensificarsi del conflitto non conveniva a nessuno.
Breve parentesi sull’Iran: Malgrado l’allarme, il regime aveva comunicato che dopo le forti pressioni ricevute da Washington avrebbe fatto ogni sforzo per evitare un conflitto, non potendo tuttavia esimersi dal rispondere a ciò che aveva subito. L’idea era che avrebbe deciso tempi e modi della risposta senza però innescare una nuova guerra.
Resto convinto che, malgrado la retorica sapientemente distribuita, la Repubblica Islamica non voglia un conflitto più vasto. Quest’ultimo attentato non ne aveva che sottolineato ulteriormente la fragilità: al suo interno, buona parte dei cittadini era contraria all’idea che venissero dilapidati soldi pubblici per finanziare gruppi come Hamas ed Hezbollah e per venire in soccorso ad un personaggio come Assad in Siria. Lo scontento della popolazione era palpabile, così come lo erano le pessime condizioni economiche che avevano spiegato l’elezione a presidente di Pezeshkian.
Percepito come un moderato, egli guida quella che potrebbe essere considerata l’ala prudente del regime. Tradotto: il conflitto continuerà, ma a bassa intensità. Egli reclamava il legittimo diritto di rispondere in caso di attacco e respingeva l’appello dei paesi occidentali a fermarsi. Allo stesso tempo dichiarava che vi erano delle opportunità da cogliere ma che sarebbero serviti dei sacrifici.
In Iran gira oggi l’espressione “cucinare le cotolette”. Si tratta di una battuta di spirito piuttosto maligna che si riferisce all’attentato che aveva ucciso il generale Soleimani, capo della Niru-ye Qods, l'unità dei Guardiani della Rivoluzione responsabile per le azioni militari all’estero. Di lui erano rimasti solo pochi brandelli di carne che vennero descritti come delle cotolette. A seguito dell’uccisione di Haniyeh, su alcune tavole venivano servite delle cotolette per esprimere discretamente ed in modo indiretto un’opinione che sarebbe stato difficile manifestare altrove.
In passato l’Iran si era inserito nel contesto palestinese per uscire dal suo isolamento e marcare la sua presenza nella regione ergendosi a difensore di quel popolo ma senza avere interesse in un conflitto diretto con Israele. Generalmente parlando gli iraniani non sono ostili ad Israele: il problema è sorto nel 1979 a seguito dell’arrivo di Khomeini e della Rivoluzione Islamica. Influenzato dal movimento dei Fratelli Musulmani, egli aveva voluto crearne l’equivalente sciita. Come spesso accade in momenti di grande subbuglio nazionale, serviva crearsi dei nemici esterni. La scelta cadde sugli Stati Uniti, il Grande Satana, ed Israele, il Piccolo Satana.
Andrebbe ricordato che l’Iran decise di riconoscere Israele nel 1950 e fino alla fine del regime dello Shah i rapporti erano stati ottimi. In epoca più remota, la Persia aveva ospitato ed integrato la più antica delle diaspore, così come ricordato nel libro biblico di Ester: andata sposa al re persiano Assuero, questi salvò poi gli Ebrei dallo sterminio.
A seguito della rivoluzione del 1979 il capo dell’OLP Yasser Arafat sbarcò a Tehran da un aereo datogli in prestito dal siriano Assad per cercare appoggio dal nuovo regime. Quest’ultimo decise così di interrompere i rapporti con Israele: il suo personale diplomatico dovette lasciare il paese e le porte della tolleranza si chiusero sulla comunità ebraica iraniana, tanto che servì un ponte aereo per evacuarne migliaia. I rapporti con Arafat furono di breve durata, tanto che per conservare un piede nell’area e continuare ad appoggiare la causa palestinese, il regime iraniano puntando sull’elemento religioso decise di finanziare Hezbollah, Hamas e venire in soccorso agli Houthi nello Yemen. Ben più forti ed organizzati di Hamas, i libanesi di Hezbollah, non sono disposti a sacrificare se stessi ed il Libano per la causa. Scontri si, ma non oltre una certa soglia.
Tornando ad oggi ed in attesa di qualcosa di più concreto, lo scontro in Iran si sta combattendo intanto sui social media con eloquentissime immagini di parate militari, lanci di missili, dimostrazioni di forza, sfoggio di armi pericolose e letali e potenti equipaggiamenti. Immagini che comunicavano potenza, determinazione, capacità militare e prodezze tecnologiche. Un efficace dispiegamento di propaganda allo scopo di intimorire e spaventare sia il nemico esterno che l’opposizione interna. Serviva soprattutto a coprire la debolezza del regime: sempre meglio spettacolari dimostrazioni di forza sui social che nella realtà.
Ulteriori tentativi di negoziato: Su richiesta di Stati Uniti, Egitto e Qatar, Netanyahu si dichiarava disponibile per il 15 Agosto a riprendere i negoziati in vista di un accordo su Gaza. Voluto dal presidente Biden già dal 31 Maggio, questo progetto trovava in teoria Hamas ed Israele aperti alle trattative ma li vedeva di opinioni contrarie riguardo le modalità. In caso di raggiunto accordo, Iran ed Hezbollah si erano dichiarati entrambi disponibili a rinunciare alla rappresaglia.
Hamas vorrebbe una cessazione definitiva delle ostilità ed il ritiro completo dalla Striscia delle Forze armate israeliane insieme ad un rilascio graduale degli ostaggi in cambio della liberazione di un certo numero di detenuti nelle carceri israeliane. Gerusalemme invece chiedeva la sospensione temporanea del conflitto in attesa di una soluzione definitiva del problema degli ostaggi. Avrebbe negoziato sui prigionieri da liberare ma rifiutava il ritiro totale da Gaza. Voleva conservare due corridoi, quello cosiddetto di Filadelfia al confine con l’Egitto per timore di contrabbando tramite i tunnel e quello di Netzarim, che taglia in due la Striscia e consente il controllo di chiunque voglia muoversi da una parte all’altra.
10 e 13 Agosto, la situazione si aggrava: Nella giornata di sabato arrivava la notizia che a seguito di un attacco missilistico israeliano era stata colpita una scuola a Gaza che ospitava molti rifugiati. I danni erano stati ingenti, così come le perdite umane. Si parlava di qualcosa come cento morti. Si era trattato di uno degli attacchi più letali dall’inizio delle ostilità.
Israele ammetteva l’azione giustificandola col fatto che all’interno dell’edificio si nascondeva un centro di comando di Hamas. I terroristi uccisi sarebbero stati 19, numero che sarebbe successivamente salito a 31. E’ per questo motivo che nella Striscia erano state interamente o parzialmente distrutte almeno quattro scuole su cinque. Senza perdere tempo, Hamas denunciava l’attacco come “un crimine orrendo”. Per l’inviato Onu si era trattato di un “genocidio”. In questi mesi, nel corso delle operazioni militari circa l’80% della popolazione di Gaza si era trovata costretta a lasciare la propria dimora per rifugiarsi altrove. Per via dell’insicurezza dei luoghi causa il prolungarsi dell’offensiva e le difficoltà di raggiungere un accordo, questi trasferimenti erano stati in molti casi ripetuti.
La settimana successiva il ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, circondato da suoi seguaci ed accompagnato da una folla di almeno tremila credenti, si recava in preghiera sulla Spianata delle Moschee, terzo luogo santo dell’Islam. La provocazione non poteva essere più evidente ed in un clima come quello del momento non poteva che esasperare gli animi. Come se ciò non fosse bastato, egli aveva anche affermato di voler far costruire una sinagoga in quel luogo. L’episodio veniva denunciato da numerosi governi, tra i quali quelli di Stati Uniti, Francia e Qatar. A queste voci si sono unite anche le condanne da parte di cinque rabbini di fama, tutti concordi nel denunciare l’iniziativa di andare a pregare sulla Spianata.
Nuove pressanti richieste per un accordo: Di fronte a questi ulteriori sviluppi, poco da stupirsi se si andavano intensificando le pressioni per una ripresa delle trattative di pace per Gaza. Stati Uniti e Qatar dichiaravano entrambi che non vi era più tempo da perdere. In coro, la comunità internazionale sciorinava dichiarazioni chiedendo alle due parti di non far saltare le trattative. Tradotto: abbiamo tutti paura della guerra.
A coordinare le discussioni sarebbero stati nuovamente Stati Uniti, Egitto e Qatar. A Doha, oltre che i rappresentanti di casa e dell’Egitto, sarebbero stati presenti anche il direttore della Cia William Burns insieme ai capi del Mossad e dello Shin Bet, il servizio segreto interno di Israele. Assente Hamas. Aveva dichiarato la sua adesione ai princìpi sui quali si sarebbero basate le trattative e la speranza che Israele non avrebbe fatto opposizione. Le indicazioni di partenza: tregua di sei settimane, liberazione degli ostaggi con scambio di prigionieri e ritiro dell’esercito israeliano dalle aree più popolate di Gaza.
Per molti osservatori le speranze erano minime, visto che le Forze armate israeliane non intendevano rinunciare alle loro operazioni all’interno della Striscia. Altri, meno pessimisti, si aspettavano una tregua ma solo di breve durata. Per i più ottimisti, se le trattative fossero andate a buon fine, vi sarebbe stata la possibilità che sia Hezbollah dal Libano che l’Iran avrebbero rinunciato alla rappresaglia.
In Israele continuavano puntuali le manifestazioni settimanali a favore della tregua e la liberazione degli ostaggi, 111 dei quali sarebbero ancora in vita. Quelli morti nel frattempo sarebbero una trentina. Le Forze armate di Israele avevano comunicato che nel corso degli scontri erano stati uccisi intorno ai 17 mila combattenti di Hamas, mentre quest’ultima invece affermava che le vittime civili erano salite a 40 mila e che i feriti erano 92 mila. Tenendo conto dei risultati di una serie di importanti bombardamenti nel corso della Seconda Guerra Mondiale, sono certo che questa cifra riguardi non solo la popolazione civile ma anche i combattenti di Hamas.
Il 16 Agosto l’incontro di Doha si concludeva con un nulla di fatto, anche se più parti lo avessero descritto come serio e costruttivo. La riunione successiva si sarebbe svolta al Cairo, dato che nessuna delle parti in causa vi aveva rinunciato e lo stesso presidente Biden continuava a dichiararsi ottimista: l’incontro era stato definito come un inizio promettente ed un importante passo avanti. Per il Qatar il lavoro di mediazione doveva proseguire e per sicurezza avanzava all’Iran la richiesta di desistere da qualsiasi attacco. La speranza era di riuscire a proporre nuove condizioni e mettere sul tavolo idee che tenessero conto delle esigenze espresse dalle parti in conflitto.
I negoziatori israeliani esprimevano un cauto ottimismo. Da parte di Hamas e di una componente dell’opinione pubblica israeliana però l’accordo che Biden giudicava vicino non era che un’illusione. In caso di fallimento dei colloqui e per marcare la sua presenza, l’Iran minacciava un attacco e metteva in guardia contro gli inganni di Israele e le falsità degli Stati Uniti.
Sempre vigile e presente, il Segretario di Stato Blinken chiedeva alle due parti di non far deragliare le trattative ed annunciava che si sarebbe recato nuovamente al Cairo ed in Qatar per preparare il terreno ad ulteriori incontri. Egli continuava ad esprimere un senso di urgenza e chiedeva ad Hamas di non sabotare le trattative. Il problema era però che entrambe le parti si accusavano a vicenda di farlo. Dal Cairo l’appello per un cessate il fuoco nel timore di un conflitto regionale in caso le trattative non fossero proseguite. Blinken comunicava che il premier Netanyahu aveva accettato il piano presentato dagli Stati Uniti e chiedeva ad Hamas di fare altrettanto. Aggiungeva che il suo paese rifiutava l’idea di una occupazione a lungo termine della Striscia di Gaza da parte israeliana.
In casa Netanyahu continuava ad essere sotto pressione per via delle incessanti proteste dell’opposizione e di parenti e amici degli ostaggi che si sentivano abbandonati e traditi. Spinte opposte gli venivano dalla sua parte politica, che gli chiedeva invece di dare la precedenza alla distruzione di Hamas. Malgrado le costanti esortazioni a concludere un accordo, le trattative sembravano al collasso con entrambe le parti su posizioni diverse. Il punto di maggior contesa era la presenza israeliana lungo il corridoio Filadelfia.
Un nuovo attacco sul Libano: il 21 Agosto la notizia di un ulteriore attacco mirato di Israele sul suolo libanese, a danno questa volta dell’esponente palestinese Khalil Maqdah. Si trattava della prima volta dall’inizio del conflitto che Israele colpiva un uomo di Fatah, in questo caso della sua organizzazione armata Brigate dei Martiri di al-Aqsa. L’accusa nei suoi confronti era di trasferire via Giordania armi e fondi di provenienza iraniana per finanziare cellule terroristiche nei territori occupati di Cisgiordania. L’Autorità Nazionale Palestinese aveva subito rivolto ad Israele l’accusa di voler dare fuoco alla regione. Quest’ultimo episodio confermava nuovamente che la spirale di violenza non sembrava fermarsi e che Israele non avrebbe rinunciato a colpir duro quando necessario. Questa era la seconda uccisione mirata in Libano effettuata da Israele. Da più parti sorgeva il timore che alla conclusione della missione di Blinken potesse riesplodere la violenza.
Il Segretario di Stato aveva lasciato Doha annunciando che i negoziati sarebbero ripresi al Cairo. Hamas annunciava nuovamente che non vi avrebbe partecipato. Tehran si rifaceva viva, avvertendo che in queste condizioni la sua risposta sarebbe stata solo questione di tempo. Inutile dire che per molti osservatori il timore di un inasprimento del conflitto si faceva più reale che mai. In un colloquio telefonico, Blinken insisteva con Netanyahu sull’importanza di una tregua. La situazione sembrava giunta ad un punto morto ma tuttavia i tentativi non si esaurivano. A confermarlo, la notizia che il direttore della Cia William Burns si sarebbe recato di persona al Cairo dove avrebbe incontrato il suo omologo del Mossad Barnea entrambi con l’intento di resuscitare la speranza in un negoziato. Sarebbero stati maturi i tempi per una soluzione?
Per Hamas restava irrinunciabile il ritiro totale delle Forze armate israeliane dall’intera Striscia di Gaza. Una volta per tutte dovevano inoltre cessare anche le ostilità. Da parte sua Israele non voleva rinunciare alla presenza militare lungo i 14 chilometri del corridoio Filadelfia al confine con l’Egitto e di quello Netzerim, che taglia in due la Striscia e consente di controllare chi si sposta da una parte all’altra. Non menzionava la fine delle ostilità, ma solo una cessazione temporanea. Contrario al mantenimento del controllo di Israele sul corridoio Filadelfia era lo stesso Egitto, in quanto avrebbe potuto mettere in discussione il trattato tra le due nazioni.
A seguito della notizia di un massiccio attacco missilistico da parte di Hezbollah, Israele lanciava un’operazione preventiva sul suolo libanese. Partivano comunque 320 missili ed un certo numero di droni contro 11 postazioni israeliane. In un discorso della durata di un’ora, il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah comunicava il successo dell’azione ed indicava che per il momento questa poteva ritenersi conclusa.
L’attacco non era che l’inevitabile risposta all’uccisione di Shukr a Beirut. Se è stata tardiva, il motivo era essenzialmente di natura psicologica: tenere Israele sulle spine mantenendo intatta la pressione sulla popolazione civile. Gerusalemme comunicava di aver invece sventato un massiccio attacco da parte di Hezbollah che avrebbe potuto colpire addirittura Tel Aviv. Il gruppo sciita smentiva la notizia e con le sue dichiarazioni contraddittorie evidenziava la volontà di non aumentare la tensione sul fronte libanese: quando possibile gettare benzina sul fuoco, ma non oltre un certo limite. Netanyahu replicava di non avere ancora finito di regolare i conti con Hezbollah. Dallo Yemen nuove minacce di colpire il territorio israeliano. Uno schiaffo allo Stato Ebraico per Hamas.
Come d’abitudine un gran vortice di voci e minacce provenienti da ogni parte, ma l’impressione per me non cambia: si tratta del solito gioco nel quale nessuno in fin dei conti ha intenzione di prendersi la responsabilità di allargare il conflitto. Non a caso dal Libano un sondaggio dava il 90% della popolazione favorevole alla cessazione delle ostilità che avevano già causato nel paese più di 600 morti, in maggioranza di Hezbollah.
Silenzio da parte del regime iraniano che per motivi di pressione psicologica continuava a tenere tutti sulle spine. Stando al gioco, gli Stati Uniti ordinavano lo spostamento nel golfo dell’Oman di due portaerei accompagnate da un gruppo navale. Un segnale a Tehran. Le monarchie del Golfo e l’Arabia Saudita nel frattempo nicchiavano.
Un nuovo fronte in Cisgiordania?: Poco prima della fine di Agosto veniva annunciata la liberazione di un ostaggio a Gaza e si assisteva all’inizio di una vasta operazione militare in Cisgiordania che investiva un certo numero di campi profughi tra i quali Jenin, Tulkarem e Nur Shams. Le vittime sarebbero state dieci. Le Nazioni Unite denunciavano subito l’accaduto. Secondo il portavoce delle forze israeliane si sarebbe trattato di un’operazione di contro-terrorismo per interrompere un traffico d’armi ed il consolidarsi di cellule di Hamas. Dall’inizio delle ostilità si erano contate in Cisgiordania circa 650 vittime palestinesi ed una ventina da parte israeliana.
A Gerusalemme nessuno al governo voleva uno Stato palestinese così anche per una parte della società israeliana, tanto che nella confusione e le emergenze in corso i coloni ne stavano approfittando per allargare i loro possedimenti considerati parte integrante di una Grande Israele. Di fronte a queste provocazioni il presidente Biden annunciava di aver sanzionato un certo numero di coloni colpevoli di azioni violente nei confronti della popolazione palestinese. Per Israele, come per i palestinesi, questa guerra era una discesa all’inferno.
Con l’inizio di questo mese l’azione in Cisgiordania non si interrompeva. Si stava verificando il fenomeno di gruppi armati formati soprattutto da giovani che si stavano unendo tra loro riuscendo a sottrarsi al controllo dell’ANP. Secondo lo Shin Bet vi era il rischio dell’apertura di un terzo fronte che avrebbe potuto impegnare ulteriormente le Forze armate già sul campo a Gaza e al confine col Libano.
Questa che si stava sviluppando era la più vasta operazione militare mai condotta in Cisgiordania. Secondo fonti delle Nazioni Unite si trattava di una serie di incursioni senza precedenti. Le vittime erano salite a 17, tra queste Mohammed Jaber, uno dei capi della Jihad Islamica. Ad innalzare ulteriormente la tensione l’agire provocatorio di un certo numero di coloni che pure loro riuscivano a sottrarsi al controllo dell’esercito. Le Nazioni Unite esprimevano una decisa condanna contro queste incursioni il cui effetto sulla popolazione civile non poteva che dirsi devastante. Veniva chiesta anche l’immediata cessazione delle operazioni militari. Da Bruxelles il commissario Borrell, pur non facendo direttamente nomi, invocava la possibilità di sanzionare alcuni ministri israeliani per le loro prese di posizione a dir poco estreme. Per non essere da meno, Hamas faceva appello ad un ritorno agli attentati suicidi in territorio di Cisgiordania.
E’ dal 7 Ottobre che queste operazioni in Cisgiordania erano andate aumentando. Il motivo è facile da spiegarsi: Israele temeva che potesse verificarsi in quei territori quello che è avvenuto a Gaza. Le distanze sono infatti minime e basti pensare che l’area di Tulkarem si trova a pochi chilometri da importanti centri israeliani. Il timore è che stiano per iniziare lavori di scavo sotterranei per realizzare dei tunnel dai quali emergere di nascosto e colpire Israele. Le operazioni in corso sono dunque propedeutiche ad impedire che possa avvenire in Cisgiordania qualcosa di simile agli orribili episodi di quasi un anno fa a Gaza.
Se per l’Unione Europea era il caso di sanzionare ministri che propagano odio e disordine, per il premier Netanyahu era impellente provvedere alla sicurezza di Israele. La sua non è certo una posizione comoda. Si trova infatti tra due fuochi: da un lato, l’amministrazione americana insieme ad una componente del suo paese e della comunità internazionale tutte a premere per una soluzione e, dall’altro, la destra radicale israeliana con gli estremisti religiosi che reggono il suo governo ed una consistente parte della popolazione che insistono invece per la linea dura. Basti pensare al ministro delle Finanze Smotrich, che non fa che insistere per rafforzare la presenza militare e civile di Israele in Cisgiordania dichiarandosi del tutto contrario ad uno Stato palestinese ed al suo collega, il ministro della Sicurezza nazionale Ben Gvir, che prometteva di usare tutte le sue forze per bloccare le trattative in corso e distruggere Hamas.
I morti palestinesi salivano a 20. Nel corso del terzo giorno di combattimenti in Cisgiordania si svolgevano i funerali delle vittime. Da parte della popolazione civile si parlava di resistenti, per Israele al contrario erano terroristi. Come nel caso di Gaza, l’esercito israeliano sembrava operare nella logica di annientare la componente militare di Hamas in Cisgiordania che, insieme alla Jihad Islamica, aveva manifestato l’intenzione di riprendere gli attentati nelle città israeliane.
Domenica 31 Agosto si apriva il quarto giorno delle operazioni militari. I combattimenti si concentravano nel nord, soprattutto a Jenin e nei in campi limitrofi. Nei pressi di Hebron venivano sventati tre attentati con delle autobomba. Successivamente, la notizia dell’uccisione di due agenti ed il ferimento di un terzo ad un posto di blocco. L’assalitore veniva abbattuto. In Israele il Consiglio dei Ministri votava per rendere permanente la presenza dell’esercito lungo il corridoio Filadelfia. A Gaza si continuava a combattere e venivano ritrovati i corpi di sei ostaggi che si sarebbe poi scoperto essere stati giustiziati per evitarne la liberazione.
Il mese di Settembre si apriva con un Biden frustrato ed un Blinken esausto dopo nove viaggi consecutivi nella regione. La Casa Bianca aveva più volte annunciato che si era prossimi ad un accordo e che la macchina della diplomazia era in moto ovunque, da Washington al Cairo, da Doha a Tehran. Il negoziato era però dei più complessi e nessuno degli antagonisti sembrava disposto a rinunciare alle sue posizioni. A rendere più difficili le cose, lo stato dei rapporti tra il presidente americano ed il premier israeliano che sembrava puntare sull’elezione di Trump. Non sarà fatica da poco giungere ad un accordo. Forse qualcosa di più si sarebbe potuta far prima, ma non è stata fatta col risultato che una situazione già di per se complessa non faceva che complicarsi.
La morte dei sei ostaggi aveva suscitato emozione e rabbia esasperando anche di più l’opinione pubblica. Si sono viste grandi manifestazioni in tutto il paese accompagnate dalla richiesta delle dimissioni di Netanyahu. La più imponente si è svolta a Tel Aviv con i partecipanti che insistevano sulla firma di un accordo, meno rigore ed un cambiamento di rotta da parte del governo. Più raccolta quella di fronte alla residenza di Netanyahu a Gerusalemme., Proteste anche in questo caso contro il governo e richiesta della firma di un accordo. In contemporanea vi erano stati anche cortei di segno opposto che definivano Hamas una banda di assassini, chiedevano al governo di non cedere e sottolineavano la necessità di schiacciare una volta per tutte l’organizzazione islamica. Per nulla intimorito da questa ondata emotiva, il premier dichiarava che avrebbe regolato i conti con Hamas.
Dietro le quinte e favorevoli alle richieste della piazza erano anche Benny Gantz e Yair Lapid. Il primo, ex-Capo di Stato Maggiore delle Forze armate, oggi alla guida del partito Resilienza per Israele, ha fatto parte del Gabinetto di guerra fino al 9 Giugno. Importante esponente politico e fondatore del partito Yesh Atid, il secondo è attualmente leader dell’opposizione. Entrambi sono favorevoli ad una maggiore flessibilità e alla rinuncia della presenza militare nel corridoio Filadelfia. A premere per un negoziato anche i vertici delle Forze armate e dei servizi di sicurezza che ritenevano inattuabile ottenere ciò che voleva il governo.
Molto legato alle forze di sinistra, il sindacato Histadrut chiamava a raccolta le forze liberali della nazione in vista di uno sciopero generale. Obiettivo: bloccare il paese e costringere il governo a rendersi più disponibile ad una ripresa delle trattative, maggiori concessioni e la firma di un accordo per riportare a casa gli ostaggi. A sospendere il lavoro sarebbero state tutte le categorie, dai lavoratori aeroportuali agli insegnanti, fino ai medici e al personale ospedaliero. Il partito Likud e le destre si dicevano contrarie e non vi avrebbero partecipato.
Lunedì 2 Settembre, giorno dello sciopero generale, interveniva il Tribunale del Lavoro che ne ordinava la sospensione in quanto non attinente a tematiche lavorative. Negozi e ristoranti rimanevano comunque chiusi.
Presentatosi di fronte alla nazione, il premier Netanyahu si scusava per la morte dei sei ostaggi dichiarandosi rattristato per non essere riuscito a fare abbastanza per liberarli: “Vi chiedo perdono per non averli riportati a casa. Ci eravamo vicini ma non ci siamo riusciti”. Chiedeva al paese di restare unito contro un nemico brutale e che lui stesso non avrebbe ceduto alle pressioni. Ha poi lasciato intendere senza margine di dubbio che non vi sarebbe stato un cessate il fuoco e che non avrebbe dato l’ordine alle Forze armate di ritirarsi da Gaza.
Avendo dichiarato che nessuno poteva fargli la morale, egli accusava Hamas di rifiutare ogni accordo, di essere costituita da selvaggi e terroristi piantati dall’Iran alle frontiere di Israele. Egli escludeva in ogni modo di interrompere le sue azioni a Gaza ed in Cisgiordania e si dichiarava determinato a vincere.
Indipendentemente dalle sue posizioni egli è tutt’ora alla testa di un governo che non ha perduto la sua maggioranza: ha 64 seggi su 120 e nessuno al momento ha voluto dimettersi. C’è in carica un esecutivo che non intende cedere su Hamas e che alle spalle ha una parte consistente della società che ne costituisce la base elettorale e non intende mollare: una destra ultra-religiosa, intransigente e nazionalista capace di trarre forza anche dalle tendenze demografiche in atto nel Paese. Se a ciò si aggiunge che le Forze armate non hanno fatto che mietere successi, vi è poco da stupirsi se Netanyahu non cederà alle pressioni dell’opinione pubblica e degli alleati e che continuerà ad andare avanti indipendentemente da ciò che gli viene chiesto.
Due cose impossibili da riconciliare: Se in Israele malgrado i dibattiti e le divisioni, segni indiscutibili di vitalità democratica, è viva e presente l’intenzione di liberare gli ostaggi per vederli tornare a casa, non meno pressante è anche ottenere una vittoria definitiva su Hamas. Riuscire a fare entrambe le cose è impossibile.
Alla domanda di un giornalista che gli chiedeva se pensasse che il premier Netanyahu stesse facendo abbastanza in vista di un negoziato, il presidente Biden rispondeva con un secco “no”. A Londra il governo laburista di Starmer ordinava la sospensione di parte delle forniture militari destinate ad Israele. Un segnale a dir vero piuttosto modesto vista l’esiguità delle consegne.
Alla luce di questi fatti e tenendo conto dell’attuale debolezza sia di Biden che di Starmer, Netanyahu non si sentiva obbligato ad ubbidire. Sapeva che gli Stati Uniti non lo avrebbero mollato e che gli inglesi avevano dichiarato qualche tempo prima che in caso di attacco da parte dell’Iran gli sarebbero venuti in soccorso. In un certo senso, più rilevanti per lui l’umore dell’opinione pubblica interna e di quella internazionale che si andavano ad aggiungere alle divisioni in seno alla stessa comunità ebraica americana, non sempre favorevole alle azioni militari di Israele ed un terzo della quale pronta a parlare di genocidio. Un altro 40% appoggiava l’iniziativa di tagliare i rifornimenti militari.
Il premier Netanyahu da l’impressione di essere inossidabile ed in grado di imbonire tutti. E’ forte, punta i piedi, resiste e non vuole firmare un accordo. A parte le sue posizioni personali, sono i suoi stessi alleati di governo a spingerlo a non cedere, pena la minaccia di dimissioni. Lui ne è cosciente, come sa di avere alle spalle la maggioranza del paese. Molti dicono che stia in attesa di una rielezione di Trump, cosa sulla quale sembrerebbe scommettere. Benché sotto costante pressione da più parti, egli sa di non essere isolato in Israele così come sa anche che su un punto sono in molti a dargli ragione: andare fino in fondo nel distruggere Hamas.
Le famiglie degli ostaggi, i loro sostenitori e tutti i militanti anti-governativi non chiedono altro che un accordo che dia la precedenza alla liberazione degli ostaggi seguito poi dalle dimissioni del premier, accusato di agire esclusivamente per la sua sopravvivenza politica. Invocano anche la soluzione a due Stati, che però tra arabi e israeliani sono in molti a non volere.
Hamas esige che Israele abbandoni l’intera Striscia di Gaza. Deve in qualche modo riscattarsi agli occhi della comunità palestinese e salvare la faccia soprattutto dopo aver causato enormi sofferenze alla popolazione civile per le sue scelte politiche. Sa bene che gli ostaggi che detiene sono un elemento di vantaggio ed un’assicurazione sulla vita dei suoi militanti. Se Netanyahu dovesse decidere di sacrificarli, perderebbero però ogni valore.
Hamas, che non vuole essere meno del suo implacabile rivale, sa che solo ciò che fa male potrà costringerlo a mutare atteggiamento. In questa lotta senza esclusione di colpi avvisava che ogni qual volta dei militari si fossero avvicinati agli ostaggi, questi sarebbero stati eliminati. Ha più volte insistito che la sorte degli ostaggi è nelle mani del premier Netanyahu, criminale di guerra e capo di un esercito di terroristi, che accusa di non rinunciare alla sua intransigenza, di fare ostruzionismo sull’accordo e di essere un testardo che rifiuta di discutere la liberazione degli ostaggi.
Gli Stati Uniti, di fronte ad un bilancio politico tutto sommato negativo e alla necessità di esercitare fortissime pressioni sulle parti avverse, si stavano rendendo conto che con tutto ciò che si andava verificando non sarebbe stato esercizio da poco giungere ad un accordo. Non possono inoltre mollare Israele che è il loro più consistente alleato nella regione.
C’è chi potrebbe avere da ridire, ma non va perduto di vista che non vi sono solo israeliani e palestinesi ma anche altri attori, diversi tra loro, con le proprie situazioni complesse e spesso contraddittorie da affrontare.
L’esempio iraniano: Senza andar lontano, sia sufficiente il caso dell’Iran. Ha ambizioni che sa di non poter realizzare ma agisce sulla scena locale come se potesse farlo. La dottrina ufficiale del regime consiste nel combattere gli Stati Uniti, distruggere Israele ed assicurare il trionfo finale degli sciiti, conquistando i luoghi sacri dell’Islam. In vista di quest’ultima parte, la vittima designata non può che essere l’Arabia Saudita. Ciò spiega i cosiddetti “accordi di Abramo”.
Per farsi strada nella regione, come visto in precedenza, Tehran ha strumentalizzato la questione palestinese ergendosi di fronte alle masse arabe come il soccorritore della causa di quel popolo quando i loro capi si inchinano invece di fronte all’Occidente e trattano con Israele. Non è un caso che dal 1948 il conflitto arabo-israeliano non abbia che alimentato dittature locali.
Quando i regimi autoritari si sentono fragili ed in perdita di consenso, fanno spesso uso della politica estera e delle avventure militari: è per loro necessario sia tenere unita la nazione che mostrare agli altri cosa sono capaci di fare all’estero per evidenziare di non essere disposti ad accettare sfide interne. Rompendo con Israele e dichiarandosi alfiere della causa palestinese, il regime iraniano mostrava di voler allargare il suo sguardo verso il mondo arabo per assicurarsi la leadership sulla comunità islamica.
Dopo aver rotto con il capo dell’OLP Arafat, la Repubblica Islamica radunava quei palestinesi di tendenze fondamentaliste per creare un’opposizione a Fatah ed inserirli nella sua orbita. Da qui la sponsorizzazione di Hamas che ci porta poi direttamente ad oggi ed al suo distanziamento dai regimi sunniti e soprattutto dalle monarchie conservatrici del Golfo.
Gli eventi che hanno fatto seguito alla giornata del 7 Ottobre hanno consentito all’Iran di riprendere l’iniziativa nella regione e diventarne la potenza dominante, cosa particolarmente vera in Iraq, Siria, Libano e Gaza, con un piede nello Yemen. Questa situazione ha consentito alle autocrazie di far leva sull’antisemitismo come strumento nella loro sfida all’Occidente, riuscendo anche a fare breccia nella sua gioventù. L’antisemitismo dunque come arma per screditarlo e guadagnare consensi nel mondo arabo e nel cosiddetto Sud globale.
Russia e Cina, autoproclamatesi protettrici dei palestinesi, ne hanno approfittato per creare un asse con l’Iran, allargare le loro aree di influenza e portare la regione all’interno di un più vasto progetto contro le democrazie liberali. In questa partita si trovano coinvolte tutte le principali nazioni della regione che sarebbe nostro interesse far pendere dalla parte dell’Occidente.
E’ per questo motivo che gli Stati Uniti considerano oggi l’Iran come il più grande nemico alla stregua di Cina e Russia mentre Netanyahu sta facendo il possibile per alimentare questa contrapposizione. Allo stesso tempo però, insieme all’estrema destra israeliana egli è di fatto alleato di Tehran, così come Assad in Siria lo era stato con lo Stato Islamico. L’Iran non ha però interesse ad una guerra totale non essendo forte abbastanza per sostenerla. Persino Hezbollah, che ne è una pedina, aveva annunciato che si sarebbe fermato una volta raggiunto il cessate il fuoco a Gaza. Entrambi giocano ad esasperare le tensioni nella speranza di vedere prima o poi Washington mettere sotto pressione Israele.
Il ruolo del Qatar: Quest’intera partita ha messo in grande imbarazzo Washington, che si è trovata a dover tenere in considerazione i molteplici aspetti della questione, cosa che le rende meno facile persuadere Netanyahu a rivedere le sue posizioni e fare un passo indietro. Entrambi in questa faccenda hanno le mani sporche e non possono vantare un passato immacolato. Ognuno a modo loro aveva contribuito a rafforzare Hamas incoraggiando il Qatar ad aprirgli le porte e finanziarlo. Come?
Non senza cinismo, il premier israeliano aveva pensato che consolidare la presenza di Hamas a Gaza avrebbe potuto mettere in difficoltà l’Autorità Nazionale Palestinese rendendo di riflesso impossibile la soluzione a due Stati.
L’utilità di un contatto indiretto con Hamas era evidente per gli Stati Uniti tanto che, nel 2012, a seguito di una loro richiesta veniva aperto a Doha l’ufficio politico di Hamas che comunque restava sempre un’organizzazione terroristica. Tre amministrazioni americane avevano appoggiato il ruolo del Qatar come mediatore con forze dell’estremismo islamico: sia sufficiente ricordare che all’epoca di Trump, a Doha si erano regolarmente riuniti emissari americani e Talebani per negoziare le condizioni del ritiro di Stati Uniti e Nato dall’Afghanistan.
Andrebbe tenuto presente che in Qatar il clero non ha mai avuto quel ruolo politico dominante come in Iran ed in Arabia Saudita. Gli imam, quasi tutti di provenienza estera, sono pagati dalle autorità e quindi obbediscono.
Il Qatar aveva per anni generosamente finanziato Hamas ed ospitato i suoi leader politici in hotel a 5 stelle. Si trattava di tenere un canale aperto con loro e alleviare le sofferenze della popolazione di Gaza per la quale questa assistenza sarebbe stata un’ancora di salvezza. Con il consenso di Stati Uniti ed Israele, tramite l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei profughi palestinesi (UNRWA), Doha forniva aiuti umanitari ed elettricità alla popolazione. Questi prima di arrivare alla società civile passavano però per le mani di Hamas che li usava per finanziare le sue attività ed acquistare armi.
A spiegare questa decisione del Qatar di farsi strumento degli Stati Uniti era un senso di profonda insicurezza dovuta al contesto di un vicinato pericoloso caratterizzato dalla presenza di vicini ingombranti quali Iran, Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo. Il primo, con cui condivide il suo più grande giacimento di gas, ha una politica di proiezione nell’area che ne minaccia gli equilibri. Non è dunque un caso che l’emirato ospiti anche la più importante base americana di tutto il Medio Oriente.
Quanto agli altri, è bene ricordare che nel 2017 Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Yemen decisero per la rottura delle relazioni e l’istituzione di un embargo che lo avrebbe isolato fino al 2021. La sua monarchia era stata accusata di fiancheggiare il gruppo dei Fratelli Musulmani e di complicità con le forze eversive della regione. A complicare le cose la sua rete televisiva al-Jazeera, considerata come ostile e faziosa. Tale era il timore di una sua invasione che Ankara decise l’invio di un contingente militare per garantirne la sicurezza.
Per venire incontro alle richieste di Washington e del suo alleato israeliano, la presenza di Hamas veniva dunque accettata per ragioni di opportunità. In questo gioco si è successivamente inserita la destra israeliana che paradossalmente ha finito con l’assecondare l’asse Hamas-Iran a Gaza. Lo scopo era indebolire l’Autorità Nazionale Palestinese, dividere il fronte avversario e togliere credibilità alla prospettiva di due Stati. Per via della sua corruzione endemica e della sua incapacità politica, l’ANP finiva anche bersaglio di Hamas ed Hezbollah.
Il problema dei coloni e la Cisgiordania: Con questa sorta di tacito accordo con Hamas, Israele si era convinto che i problemi più urgenti e gravi fossero in Cisgiordania. Lì infatti non mancavano le tensioni per via dell’agire provocatorio dei coloni che spesso sfociava in frequenti scontri con la popolazione locale. Dal 7 Ottobre si sono contati 1.300 attacchi da parte dei coloni. Benché più volte condannato, questo movimento di colonizzazione non accennava a diminuire: negli anni ‘90 si trattava di poco meno di 70 mila persone, oggi si è intorno alle 650 mila.
Similmente ai loro leader Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, questi coloni sono ultra-nazionalisti, fanaticamente religiosi e per principio contrari all’idea di uno Stato palestinese: la loro fede imponeva di credere in un ritorno alla Grande Israele che avrebbe dovuto inglobare tutto l’attuale territorio di Cisgiordania, il cui nome biblico era Giudea e Samaria. Su questa faccenda il premier Netanyahu si era sempre mostrato più discreto, ma penso sia lui stesso fautore della realtà di una Grande Israele.
Questo sogno li vede favorevoli all’espulsione della popolazione palestinese, la cui vita veniva intanto resa molto difficile non solo da questo brulicare di nuovi insediamenti, ma anche dalla costruzione di un insieme di strade che solo i coloni possono percorrere e che di conseguenza li tagliava fuori da molti percorsi.
Questa situazione appena descritta aiuta a capire come mai Israele si trovasse così sguarnita e distratta al confine con Gaza: per Gerusalemme la precedenza andava tutta alla Cisgiordania. Un grande rischio era stato sottovalutato consentendo così all’antisemitismo islamico di esplodere in tutta la sua ferocia. Vi sarà prima o poi un’inchiesta per stabilire la dinamica e le scelte che hanno portato a quella tragedia. Ad oggi continuano le operazioni ed i bombardamenti a Gaza, le cui perdite civili sono inaccettabili tanto per le masse arabe che per i loro governi. Le truppe israeliane effettuano ancora i loro rastrellamenti in Cisgiordania dove da entrambe le parti continuano ad aumentare le vittime. In Israele la protesta non demorde, Netanyahu non cede e le trattative sono ad un punto morto.
Alcune considerazioni per chiudere: Come il lettore avrà potuto vedere, dal momento che è questo scritto è stato iniziato le cose di molto non sono cambiate. Con la fine dell’estate abbiamo terminato il viaggio e lascerò il lettore con la notizia che nella giornata dell’8 Settembre sono state uccise tre guardie di frontiera israeliane al punto di transito del ponte Allenby al confine giordano. L’assalitore è stato immediatamente abbattuto.
Nel fare le condoglianze ai parenti delle vittime, il premier Netanyahu ha detto di non farsi illusioni, che si trattava di terroristi spregevoli “che vogliono ucciderci tutti”, senza far distinzioni tra chi è di destra o di sinistra, laico o religioso, ebreo o non ebreo.
Il giorno dopo Israele attaccava in Siria nei pressi di Hama un centro di produzione militare gestito dai Guardiani della Rivoluzione. Le prime notizie parlavano di almeno venti morti. Vive proteste da parte di Tehran. Gerusalemme non conferma né smentisce. L’11 Settembre veniva colpito a Khan Yunis un angolo di territorio che aveva copertura umanitaria. Secondo le Forze armate, sul luogo del profondo cratere si nascondeva un centro di comando di Hamas. Le prime vittime accertate erano 19. Egitto e Turchia parlavano immediatamente di “un orrendo massacro”, mentre dal canto suo il Segretario Generale dell’Onu deplorava che fosse stato colpito un luogo destinato ad area umanitaria.
Dall’inizio della guerra si erano susseguiti nella Striscia 16 successivi ordini di evacuazione riguardanti l’80% della popolazione civile, che si dichiara oggi stremata ed afferma di non poterne più. Dal centro medico di Hamas giungeva la notizia che i morti a Gaza avevano superato di poco le 41 mila unità. Tra le fila dell’esercito israeliano si parla invece di oltre 700 soldati uccisi. Mentre il ministro della Difesa Gallant conferma di voler chiudere l’intera faccenda, un comunicato delle Forze armate affermava che in caso di un bersaglio di grande importanza per distruggerlo erano disposte ad accettare fino a 100 vittime. Le stesse hanno fatto sapere che al momento gli ostaggi ancora in vita sarebbero 70 e comunicano inoltre che Hamas è prossimo a non avere quasi più capacità offensive.
Riguardo le operazioni in Cisgiordania, gli Stati Uniti continuano a mostrarsi piuttosto prudenti pur accennando alla possibilità di un piano insurrezionale. Per l’esercito israeliano resta un’operazione di ampio respiro decisa per sloggiare e possibilmente scardinare quei gruppi armati palestinesi che vi si nascondono. Passando al governo, vi è chi sospetta che la sua parte più radicale, che ne è anche la stampella, sia decisa a provocarvi tanti disordini da causarne l’annessione.
Ad indicare i riflessi di questo conflitto, le ultime elezioni in Giordania che hanno mostrato un risultato senza precedenti per un partito islamico. Nel parlamento agli eletti sono riservati 41 seggi, la stragrande maggioranza dei quali è andata al Fronte di Azione Islamica, espressione politica locale dei Fratelli Musulmani, che ne ha ottenuti 31. Va comunque sottolineato che l’astensionismo è stato dei più forti in quanto solo un elettore su tre si è recato a votare. Anche in questo caso non si può che vedere un ulteriore effetto dello scombussolamento e delle difficoltà create da questo conflitto. La popolazione è preoccupata dal suo prolungarsi e dalle gravi conseguenze sull’economia: senza andare lontano basti pensare che il 14% del reddito nazionale viene dal turismo. Per chiudere, aggiungerò che poco meno della metà della popolazione giordana è di origine palestinese.
Due parole finali sull’Iran. Dai servizi segreti francesi la notizia di un’operazione dal nome “Marco Polo”. Sarebbe diretta dal regime allo scopo di uccidere ebrei in Francia ed in Germania assoldando criminali comuni di origine araba. Da Washington, Londra e Parigi l’accusa di aver fornito missili a corto raggio da impiegare contro l’Ucraina: immediate nuove sanzioni. Tehran nega e non nasconde il proprio rancore.
Nel suo primo viaggio all’estero, il neoeletto presidente Masud Pezeshkian si è recato in Iraq. A Baghdad ha annunciato la firma di 14 accordi destinati a rafforzare la cooperazione tra i due Paesi. Al suo cospetto, il premier iracheno al-Sudani ha confermato di rifiutare un qualsiasi ampliamento del conflitto nella regione.
Conclusione: Nel corso di questa estate si è potuto vedere come questo conflitto abbia gradualmente assunto una dimensione internazionale, andando ben al di là della questione israelo-palestinese e si è visto come alcune nazioni, malgrado le differenze, si siano trovate insieme per indebolire l’Occidente democratico ed allargare le loro aree di influenza.
Accanto a loro, si è anche vista la conferma che nella regione vi sono paesi come l’Arabia Saudita che ambiscono ad agire a tutto campo ed in ogni scacchiere per garantirsi un ruolo che sia loro, tenendo anche conto di quelli che sono i propri vantaggi ed interessi. Si tratta di politiche estere disinvolte giustificate in parte dal fatto che l’Occidente venga visto come inaffidabile ed incerto.
Come in tutte le guerre vi sono ambiguità e zone d’ombra, oltre che episodi sanguinosi. Non è difficile prevedere che ogni occasione verrà colta per mettere in imbarazzo i paesi occidentali. Aspettarsi perciò ulteriori manifestazioni apertamente ideologiche, ispirate da agende di indubbia matrice politica che faranno scendere in piazza militanti ed attivisti schierati insieme a favore di Hamas e dichiaratamente ostili ad Israele.
Con un’Europa incapace di darsi una dimensione internazionale e gli Stati Uniti che non sembrano in grado di risolvere il caos in Medio Oriente, penso che per risolvere tutta la faccenda sia necessario andare oltre l’interrotto negoziato tra Israele ed Arabia Saudita. Soprattutto in questo caso serve giungere ad un accordo comprensivo senza il quale non può esservi nella regione un paese tranquillo: solo in questo modo si otterranno quella pace e quella collaborazione che impediscano la creazione di futuri nuclei di popoli imbevuti di odio e di rancore.
Le vicende del passato insegnano che in politica estera o si guarda lontano o non si fa nulla: vincitore sarà chi guarda all’avvenire tenendo anche conto che le scelte di politica estera non sono atti unicamente diplomatici ma anche scelte fondamentali di civiltà e di vita. Questo conflitto, così come quello ucraino, ha ampiamente dimostrato che né la forza né la minaccia della forza possono essere strumenti di politica estera. Una guerra si può iniziare e poi anche vincere, ma in seguito ci vuole una strategia politica. I tempi sono a questo punto più che maturi per un’azione diplomatica di ampio respiro che guardi oltre alla pluridecennale disputa tra israeliani e palestinesi e metta mano all’intera regione.
P.S. Era stato reso noto il caso di un bambino di 10 mesi colpito dalla poliomielite. Era da oltre 25 anni che non si verificava un caso simile nella Striscia di Gaza. A spiegarlo le pessime condizioni igieniche causate da quasi 11 mesi di guerra. L’Onu interveniva chiedendo alle parti una tregua umanitaria di una settimana per procedere alla vaccinazione dei 650 mila bambini che vivono nella Striscia.
Un accordo è finalmente stato raggiunto nell’ultimo giorno del mese di Agosto: questo prevedeva due cicli di vaccinazioni ognuno di tre giorni da spalmare su un mese. Malgrado le difficoltà inerenti nel portare a termine il programma, alla fine si è riusciti a farlo: per via dei combattimenti si sono dovuti organizzare tre centri vaccinali in tre diverse aree della Striscia. Ad oggi sono state somministrate 500 mila dosi di vaccino. Tra un mese è prevista la seconda somministrazione. Si tratta finora dell’unico accordo raggiunto. Non resta che sperare si possa presto andare oltre.